La questione scozzese e il futuro del Regno Unito. Due questioni hanno tenuto banco nelle ultime settimane di campagna elettorale nel Regno Unito. Da un lato, la rinegoziazione della presenza britannica nell’Unione europea e, dall’altro lato, in maniera sempre più preponderante, la questione scozzese. Quest’ultima è diventata il mantra dei giorni precedenti il voto, in realtà a causa di sondaggi che si sono rivelati erronei.
Tutti gli istituti di rilevazione davano come certo un cosiddetto hung parliament, ossia un Parlamento senza partito di maggioranza, e, quindi, veniva dato per scontato che si sarebbe formato un altro governo di coalizione. In questo quadro, lo SNP ha messo subito in chiaro che non avrebbe mai formato un governo con il partito guidato da David Cameron. Di conseguenza, solo due coalizioni sarebbero state possibili. Ma, mentre un’eventuale coalizione fra Tories e Lib-dem non avrebbe messo in discussione l’unità di Gran Bretagna e Nord Irlanda (e avrebbe consolidato l’esperienza dell’ultima legislatura), un’alleanza fra Labour e Snp avrebbe invece aperto le porte alle richieste autonomiste di quest’ultimo partito. La prospettiva di un governo appoggiato dai nazionalisti scozzesi è divenuto lo spauracchio del sistema politico britannico, al punto che lo stesso Milliband ha ribadito più volte che non avrebbe mai formato un governo con lo Snp. In questo contesto non stupisce che il leader dello Snp, Nicola Sturgeon, sia stata rappresentata dai media e dai partiti unionisti come una reale minaccia, non solo per la tenuta del Regno Unito, ma per la prosperità degli inglesi. La principale paura di una coalizione fra Labour ed Snp era dettata dalla possibilità, per i nazionalisti scozzesi, di influire direttamente sulla formazione e distribuzione del budget del Regno. Il discorso politico si è quindi concentrato sul timore che lo Snp potesse ottenere ulteriori cospicui trasferimenti verso la Scozia, con il solo obiettivo, non dichiarato, di ottenere comunque l’indipendenza nel futuro. Per essere precisi, all’emersione della questione scozzese nel registro della rappresentanza politica, si è reagito con il richiamo esplicito al nazionalismo inglese. In parte, tale richiamo è stato una modalità di contenere la crescita elettorale del partito euroscettico Ukip. Ma non può sfuggire che un simile discorso tende a ridurre la politica britannica a politica inglese, consolidando la percezione scozzese di essere, tutt’al più, marginali.
Alla luce del risultato elettorale, è chiaro che la solidità del Regno Unito verrà messa a dura prova. Intanto sembra oramai chiaro che esistono due sistemi politici che convivono nello stesso Stato. Uno quasi monopartitico, in Scozia, dove lo Snp domina oramai incontrastato, dove Libdem e Tories erano già marginali e dove il Labour, una volta partito di riferimento, è divenuto molto più debole a causa della sciagurata campagna referendaria condotta assieme ai conservatori. L’altro sistema politico è quello del Regno Unito, dove, almeno per i prossimi cinque anni, il governo è nelle mani della maggioranza conservatrice. Il problema non è solamente la compresenza di due sistemi politici nello stesso Stato, ma è la traiettoria intrapresa dai due sistemi. I partiti unionisti danno oramai per persa la Scozia, mentre i nazionalisti scozzesi, non potendo influire sul governo britannico tramite una coalizione con il Labour, avranno forti ragioni per ripiegarsi in ambito scozzese. In altre parole, non s’intravede, al momento, una convergenza fra gli interessi dei Tories e quelli dello Snp al fine di trovare una soluzione all’incipiente crisi costituzionale. L’esito più probabile, almeno nel breve termine, sarà quello di espandere le proposte della commissione Smith e, forse, riprendere quanto già contenuto nella bozza dello Scotland Act 2015. A quel punto, viste le promesse in campagna elettorale, si aprirebbe un cantiere di riforme molto ampio, poiché a una maggiore devoluzione di competenze a Edimburgo dovrebbe corrispondere l’attribuzione del voto su questioni che riguardano l’Inghilterra solo a parlamentari inglesi e la revisione della formula di Barnett con la quale si calcola la redistribuzione delle risorse finanziarie alla Scozia.
Il referendum sull’Unione europea, previsto per la fine del 2017, potrebbe far precipitare la situazione, soprattutto se i sondaggi dovessero dare un esito incerto, per quanto si tratti, a oggi di uno scenario ipotetico. Ma, se così fosse, i nazionalisti scozzesi non accetterebbero mai di riconoscere il risultato di un referendum che non tenga in considerazione la volontà delle quattro nazioni e, se spinti a dover scegliere fra due unioni, opterebbero sicuramente per quella europea.
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