Domenica 12 maggio si è votato per il rinnovo delle Cortes catalane. 135 i seggi in palio. Il risultato non ha lasciato margini per interpretazioni arzigogolate. Hanno vinto i socialisti di Salvador Illa con 42 seggi (+9), ha perso Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), crollata a 20 seggi (-13). Bene sono andati Junts, dell’ex presidente Carles Puigdemont, che ha conquistato 35 seggi (+3), e il Partito popolare, che ne ha ottenuti 15 (+12). Vox ha confermato i suoi 12, Comuns Sumar ne ha ottenuti 6 (-2), Candidatura de Unidad Popular 4 (-5) e 2 la nuova formazione di estrema destra indipendentista, Aliança Catalana, mentre Ciudadans non ha ottenuto seggi. Se si pensa che nel 2017 era stata la formazione più votata con 1,1 milioni di voti, pari al 25,3% e 36 seggi, si ha contezza della fragilità della sua proposta politica e, di conseguenza, della volatilità del suo elettorato.

Il principale dato politico del voto di domenica è stato la decisa flessione delle forze indipendentiste che, a non tener conto del clivage destra/sinistra, messe assieme superano appena il 43% dei consensi e, con 61 seggi, restano al di sotto della maggioranza necessaria di 68 voti. Unanime il giudizio sulla fine di una fase del procés, ma di qui a pensare che l’indipendentismo sia al tramonto, ce ne corre. Il nazionalismo ha radici profonde nella cultura e nella società catalane e dovessero ripetersi maldestri atteggiamenti da parte del governo di Madrid (Rajoy docet), impiegherebbe un attimo a rianimarsi.

L’inequivocità del risultato lascia tuttavia incerto il futuro per quanto riguarda la formazione di una maggioranza a sostegno del governo. Erc è l’ago della bilancia, ma è uscita dal voto fortemente ridimensionata; il suo leader e presidente uscente della Generalitat, Pere Aragonès, ha rinunciato al seggio; è divisa al proprio interno e da mesi in rotta di collisione con Junts. Una frattura che difficilmente potrà ricomporsi, nonostante gli appelli accorati di Carles Puigdemont per la formazione di un governo indipendentista, sia pure di minoranza. Potrebbe riuscire nell’intento soltanto se i socialisti catalani sacrificassero il proprio successo sull’altare del governo di Madrid, per mantenere in piedi il quale conta la benevolenza di Junts. Ma Pedro Sánchez ha già fatto sapere che il governo catalano si decide in Catalogna. Sulla carta avrebbe i numeri una maggioranza progressista tra socialisti, Comuns Sumar ed Erc, se non fosse che quest’ultima si è detta indisponibile a un governo tripartito. Per quanto resti questa la soluzione più probabile, i giochi restano aperti.

Il principale dato politico del voto in Catalogna è stato la decisa flessione delle forze indipendentiste che, messe assieme, superano appena il 43% dei consensi

Il voto catalano è stato il terzo dall’inizio del 2024 per il rinnovo dei Parlamenti delle Comunità autonome. Il 18 febbraio si è votato in Galizia, tradizionale feudo del Partito popolare, che ha confermato il proprio primato con il 47,39% dei voti e 40 seggi (-2) e visto la forte affermazione del Bloque Nacional Gallego con il 31,34% dei consensi e 25 seggi (+6). Male sono andati i socialisti che, con il 14,07% dei voti, hanno ottenuto 9 seggi (-5). Né l’estrema destra di Vox, con il 2,27%, né la coalizione di sinistra Sumar, con l’1,93%, sono entrati nel Parlamento di Santiago de Compostela. Obiettivo centrato, invece, dal partito su base provinciale Democracia Ourensana che ha eletto un proprio rappresentante. Un buon risultato, dunque, per Núñez Feijóo e il Partito popolare che, confermando la maggioranza assoluta delle precedenti legislature, presiede ora la Xunta de Galicia con Alfonso Rueda.

Il 21 aprile, poi, si è votato nei Paesi Baschi, dove si è confermato al primo posto il Partito Nacionalista Vasco (Pnv) con il 35,22% dei voti e 27 seggi (-4), seguito a una spanna dalla coalizione indipendentista di sinistra Eh Bildu con il 32,48% e lo stesso numero di seggi (+6). Discreto il risultato dei socialisti che, con il 14,22%, hanno ottenuto 12 seggi (+2) e dei popolari che, con il 9,23%, ne hanno conquistati 7 (+2), mentre sia Vox sia Sumar hanno conquistato entrambi un seggio. Probabile la conferma del governo della precedente legislatura tra Pnv e socialisti, anche se i negoziati sono tuttora in corso e la stretta si avrà solo dopo le europee del 9 giugno.

Le tre Comunità autonome in cui si è votato sono anche quelle che godono di peculiari caratteristiche, essendo costituzionalmente riconosciute come “nazionalità storiche”. Conoscono dinamiche elettorali difformi sia da quelle legislative sia da quelle delle altre Comunità. In particolare, i Paesi Baschi e la Catalogna sono fortemente sensibili agli orientamenti dei governi di Madrid in materia di rapporti tra centro e periferia. Il governo socialista presieduto da Pedro Sánchez, dando prova di duttilità, ha avuto un atteggiamento negoziale con i nazionalismi basco e catalano, riuscendo almeno per ora a stemperare l’ondata indipendentista catalana dell’ultimo decennio. Certo, dalle elezioni del 23 luglio 2023, popolari e Vox, non sempre differenziandosi nella violenza dei termini e dei toni, non hanno smesso di rinfacciare ai socialisti di aver venduto l’unità della Spagna in cambio dell’investitura di Sánchez alla guida del governo. Principale polo della discordia la legge di amnistia per i reati compiuti dai dirigenti dei partiti indipendentisti durante il procés. Una legge approvata dal Congresso dei deputati e ora in discussione al Senato, della quale uno dei punti più controversi è stato la tipificazione del reato di terrorismo a carico di alcuni imputati. Punto sul quale le destre si sono accanite e che, visto dall’esterno, sorprende se solo si pensa al vero terrorismo, quello dell’Eta, che il Paese iberico ha conosciuto e sofferto fino al 2009.

Il governo socialista presieduto da Pedro Sánchez, dando prova di duttilità, ha avuto un atteggiamento negoziale con i nazionalismi basco e catalano

A rendere il clima ancor più arroventato, due scandali scoppiati negli ultimi tempi. Il primo, per presunta corruzione nell’acquisto di mascherine nella fase iniziale del Covid, a carico di Koldo García, consigliere dell’ex ministro José Luis Ábalos, assai prossimo a Sánchez. Il secondo, per presunto traffico d’influenze e corruzione, ha investito la moglie del leader socialista, Begoña Gómez, che un giudice di Madrid ha deciso di indagare dando credito alle accuse lanciate da una piattaforma di estrema destra, Manos limpias, diretta da un personaggio tutt’altro che raccomandabile dal punto di vista dell’etica pubblica. Una decisione che ha portato Sánchez il 24 aprile all’inedita mossa di rivolgersi direttamente tramite i social a tutti i cittadini spagnoli comunicando la decisione di prendersi una pausa di riflessione, ventilando la possibilità del ritiro dalla politica. Un gesto dagli effetti calcolati di denuncia dell’imbarbarimento della vita politica, ma anche volto a far distogliere l’attenzione dal caso Koldo a cui il partito ha risposto immediatamente, mobilitandosi in difesa del proprio leader, prontamente rientrato in pista.

Se proprio si volesse trarre qualche indicazione di carattere generale dalle tre competizioni elettorali, si potrebbe sostenere che, complessivamente considerate, esse hanno segnato un punto a favore del partito socialista, anche per l’arretramento di Sumar, mentre sull’altro versante il Pp, intercettati i voti di Ciudadans, sembra recuperare l’emorragia di consensi verso Vox, apparso in stallo. Se si aggiunge che i dati dell’economia sono abbastanza positivi, almeno per quanto riguarda il Pil, cresciuto nel 2023 del 2,5%, ben al di sopra della media dell’Eurozona (0,4%), il quadro che ne scaturisce non è tale da mettere in discussione la tenuta del governo. Che a meno di un cataclisma del voto alle europee, pare destinato a durare.