«Noi, scrivendo il Mulino, soprattutto impariamo. Impariamo a mettere a largo frutto quel bagaglio di studio accademico e, troppo spesso astratto, che potrebbe fare di noi degli specialisti rinchiusi in un guscio, fosse pure prezioso; o, peggio, dei presuntuosi. […] In questo nostro desiderio di inserirci sul piano di un rapporto significativo e concreto fra noi e i nostri lettori, sta la politicità del giornale: per esso politica significherà soltanto essere, parlare e vivere insieme…»
[Dall’editoriale del numero 1/1951]
Il 25 aprile del 1951 usciva il primo numero della rivista «il Mulino». Cinque studenti bolognesi divenuti amici tra i banchi del liceo Galvani avevano letto Il Mulino del Po di Bacchelli e si concepivano dentro la Storia, tanto che per il loro «quindicinale di informazione culturale universitaria» scelsero come data di nascita il gigantesco giorno della Liberazione. Nessuno dei redattori veniva dalla Resistenza, per fortunato limbo anagrafico il fuoco della Seconda guerra mondiale li aveva risparmiati, ma ciascuno aveva osservato e sapeva che la vita adulta sarebbe appartenuta all’Italia radicata in quel giorno. Nel giro di pochi anni il giornalino finanziato dall’avvocato Barbieri, padre «adottivo» di uno di loro, straborda in casa editrice. Per ripassare come – la «geopolitica editoriale» fu a cura di Fabio Luca Cavazza – c’è il recente libro di Francesco Bello, qui ci basta ricordare che nell’impasto di quella che oggi chiameremmo start-up agirono ingredienti irripetibili: intelligenze libere, straordinarie e generose, miscelate in un contesto di ricostruzione che prometteva pace e lavoro, studio e responsabilità. Il Mulino delle origini si coagula attorno al divertimento di un gruppo che non voleva smettere di studiare insieme, e tuttavia nasce adulto, perché il suo momento è il momento della Costituzione. L’ingenuità e il realismo, la serietà e la creatività dei fondatori e delle loro diverse culture politiche lavorano in quella collocazione storica, in quello stato di grazia fisico e mentale.
I mulinisti ritengono che lo studio sia un obiettivo in sé – «non l’allenamento ma la partita» –, è interessante però che proprio all’interno di questa concezione i problemi di capire e di far capire diventino presto una cosa sola, come se divulgazione e azione non fossero che naturali prosecuzioni della lettura, forme dell’apprendimento. La continuità tra studio e politica nel solco delle aspirazioni costituzionali è visibile in tutti i convegni che la rivista organizza nell’Italia della ricostruzione. Nell’aneddotica mulinesca è particolarmente celebre il quinto, che a poche settimane dall’insediamento di J. F. Kennedy alla Casa Bianca portò nella rossa Bologna studiosi come Hans Morgenthau, Arthur Schlesinger e Raymond Aron a dibattere sulla «politica internazionale degli Stati Uniti e le responsabilità dell’Europa» (si leggano in proposito Gentiloni Silveri e Marco Mariano sul n. 1/2021); qui prendo ad esempio il convegno successivo, il sesto, meno noto ma ancor più emblematico, sulla questione alto-atesina.
L’Accordo di Parigi che De Gasperi aveva firmato il 5 settembre 1946 con il governo austriaco raccomandava provvedimenti a tutela della cultura, della lingua e dell'identità della minoranza tedesca dell'Alto Adige. La Costituente italiana intese recepirlo ratificando il primo Statuto di autonomia per le province di Trento e Bolzano, unite nella Regione Trentino-Alto Adige, e inserendo la tutela delle minoranze nell’art. 6; ma nel 1956 l’Austria torna indipendente e protesta per l’insufficiente attuazione dell’autonomia, aprendo la strada a una serie di manifestazioni sudtirolesi che culmineranno, nel giugno 1961, negli attentati dinamitardi della cosiddetta «notte dei fuochi». In un contesto polarizzato, i mulinisti non perdono tempo e tra il 4 e il 5 novembre dello stesso anno organizzano a Bolzano un Convegno dal titolo «Una politica per l’Alto Adige» (così, giusto per non girarci troppo intorno…). A tenere le relazioni introduttive invitano per parte tedesca Silvius Magnago (leader della Südtiroler Volkspartei e presidente della Provincia autonoma di Bolzano) e per parte italiana Lidia Menapace e Giuseppe Farias (membri dell’Esecutivo provinciale della Democrazia cristiana), che nei loro interventi preconizzano la creazione di due province autonome. Il numero 109 della rivista dà conto dei lavori con queste parole:
«In sede di bilancio sommario è forse bene ricordare che tutti gli esponenti del gruppo di lingua tedesca (parlamentari e consiglieri provinciali) erano stati invitati al Convegno, unitamente ai rappresentanti di tutte le forze politiche e culturali locali. Il Mulino ha ritenuto infatti, dal principio alla fine del Convegno, che il confronto delle idee e delle posizioni dovesse essere il più aperto e completo possibile e perciò ha considerato necessario non operare alcuna esclusione pregiudiziale (neppure nei confronti delle posizioni più lontane dalle nostre tesi autonomistiche e, di fatto, hanno avuto la parola missini e comunisti), lasciando che fosse l’andamento dei lavori e l’iniziativa e il senso di responsabilità delle parti interessate a delineare la fisionomia del dibattito. Per il Mulino era garanzia sufficiente, a indicare una prospettiva liberale ed europeistica e soluzioni di diritto e libertà, la scelta del presidente [Felice Battaglia] e dei relatori [Magnago, Menapace, Farias], nonché l’intervento attivo dei redattori del Mulino e, in particolare, degli amici Spinelli, Corna, Pellegrini, Prandi, Rescigno, Raimondi».
Eccolo qui, il metodo che farà scuola: parola a tutti in un perimetro chiaro. Un’operosità che vede iniziative politiche e iniziative editoriali sfumare l’una nell’altra, perché un dibattito tra redattori diventa un convegno, l’articolo che ne dà conto lancia una pubblicazione
Eccolo qui, il metodo che farà scuola: parola a tutti in un perimetro chiaro. Un’operosità che vede iniziative politiche e editoriali sfumare l’una nell’altra, perché un dibattito tra redattori diventa un convegno, l’articolo che ne dà conto lancia una pubblicazione della collana «Problemi della società italiana» e tutta l’intelligenza sociale prodotta durante il percorso si mette a servizio di possibili soluzioni politiche e istituzionali. In quello stesso autunno il governo aveva già istituito una «Commissione dei 19» che nel corso di un decennio elaborò un nuovo Statuto di autonomia; il contributo della rivista fu parallelo, politico ma apartitico, democratico ma extraistituzionale. Un risultato doppio, perché mentre favoriva una libera ed effettiva conoscenza dei problemi in corso, l’indipendenza del gruppo disegnava cornici di dialogo e contesti di incontro che la politica organizzata, con le sue legittime aspirazioni di parte, non poteva strutturalmente produrre.
Oggi il Dopoguerra è finito e nessuno dei giovani di allora è in vita. Settant’anni dopo, un nuovo sito internet festeggia il nome scelto da straordinari ragazzi di un’altra epoca. Per fare che cosa!? Questa è la domanda da non eludere.
I nuovi redattori della rivista sono nati tra gli Ottanta e i Novanta. Siamo abbastanza «vecchi» da non essere «nativi digitali» e abbastanza «giovani» da non ricordare la prima Repubblica e Berlino divisa in due; più di metà dell’archivio che ereditiamo riflette su assetti internazionali che negli anni della scuola abbiamo visto scomparire dalle carte geografiche (eccezion fatta per l’Unione europea, che comunque non è stata ferma); non abbiamo mai guadagnato in lire e, lo dico con una battuta, nel nostro immaginario la politica senza Silvio Berlusconi confina quasi più con il Risorgimento. Eppure, il metodo del Mulino ci parla ancora, sottoforma di manuali ci ha accompagnato durante gli studi consegnandoci una complessità di cui avverte il bisogno anche chi non fa l’università o non ha la fortuna di sapere che il Mulino esiste: persone da raggiungere. Preparando i materiali per il Settantesimo ci siamo chiesti quali siano, oggi, le nostre Bolzano, dove siano le faglie del presente da non temere di consegnare alla discussione. Le risposte sono molteplici e discordi, nel corso del triennio proveremo ad affrontarle.
La sensazione «di fondo» che condividiamo è che la riflessione odierna fatichi a svolgersi sui reali problemi della società anche perché buona parte dell’appartenenza e della competizione per il consenso politico ha traslocato sulle linee simboliche della comunicazione permanente. Bisogna ipotizzare questo problema senza alcuna idealizzazione del passato, sapendo che la mediazione ha a che fare con la società di massa e che anche chi leggeva «l’Unità» e si radunava a parlare di Unione Sovietica in piazza Maggiore fruiva una versione mediata (e se vogliamo distorta) della politica. Tuttavia i partiti, i giornali e le televisioni non erano e non sono monopoli globali di profilazione commerciale, neutrali quando non arbitrari rispetto ai contenuti che veicolano. Riconoscere e riflettere criticamente sulla qualità dei nuovi intermediari che la nostra stessa rivista utilizza da anni è dunque il primo passo. Cavazza ci chiederebbe cosa aspettiamo a invitare Mark Zuckerberg in redazione per discutere del ruolo delle piattaforme nelle democrazie avanzate (il gioco del «se fosse qui» è sempre sbagliato, ma in questo caso è proprio divertente perché la scala su cui si mosse fu davvero quella). Nei limiti delle nostre presenti capacità, il primo numero del nuovo trimestrale riporta sin nella copertina l’aggressione al Campidoglio del 6 gennaio, un momento di insuperabile sintesi contemporanea, perché l’immaterialità delle reti si è fatta carne per aggredire l’immateriale sacralità della metafora parlamentare, rendendo plastico in che misura interi pezzi di società americana interconnessa siano finiti per disprezzare il sistema di senso della porzione in cui non si riconoscono.
Lo sfarinamento della società avanzate nella solitudine di profili allo specchio riguarda anche la nostra democrazia, l’attuale legislatura nata con l’affermazione di Movimento 5 Stelle e Lega e finita con un governo guidato da una personalità politica come Mario Draghi ne restituisce a suo modo il problema. Per quanto fosse auspicabile, un ritorno così imponente delle forme e dei limiti della Costituzione si deve non soltanto al bagno di serietà imposto dalla pandemia, ma anche a uno scollamento senza precedenti tra il regno della realtà e il conflitto politico che nel 2018 aveva estratto consensi dal demos. Un piccolo esempio che mi è rimasto impresso: il secondo governo Conte sostenuto da Movimento 5 Stelle e Partito democratico nasce nei giorni in cui i profili social ufficiali del M5S sono impegnati nella campagna sul «Pd partito di Bibbiano». Ipnotizzati o in prima linea nella stilizzazione memetica del conflitto, non solo i commentatori ma gli stessi attori politici faticano sempre di più a elaborare discorsi lungo fili culturalmente ricostruibili: l’importante, giorno dopo giorno, è uscire indenni dal girone dei commenti.
Più connesso che informato, più indignato che speranzoso, più sentenziante che ragionante: è questo il partecipe che conviene alla piattaforma commerciale, un produttore di dati che fatica a metterli in fila. Ci sta bene così? Il futuro sarà fatto di misure senza teoria?
Dal canto suo, potendo seguire un #ministroinspiaggia con il telefono, anche il cittadino-spettatore finisce per sottostimare i fatti propriamente politici. È accaduto durante la formazione del «giallo-rosso», quando è sostanzialmente mancata un’adeguata copertura mediatica dell’impatto che in quei giorni ha avuto la costruzione della nuova Commissione europea sulla formazione di una nuova maggioranza italiana; ed è accaduto con la formazione del governo Draghi, perché, ancora una volta, avendo la possibilità di commentare in diretta un #politicoantipatico ci siamo dimenticati di approfondire cosa sia il piano Next Generation EU, quali interessi economici e quale lavorio politico-istituzionale si sono attivati per garantire una partecipazione più ampia possibile alla sua gestione. Insomma, tanto nel ’19 quanto nel ’21 ci siamo divisi ma non sulla realtà effettuale. La dimensione continentale dei problemi e della politica è senza dubbio la più penalizzata da questa fruizione nazionale e spettacolare del quotidiano, la quale svolge una propria funzione nella società, ma a cui sarebbe sano affiancare un diverso attaccamento alla polis. Più connesso che informato, più indignato che speranzoso, più sentenziante che ragionante: è questo il partecipe che conviene alla piattaforma commerciale, un produttore di dati che fatica a metterli in fila. Ci sta bene così? Il futuro sarà fatto di misure senza teoria? In un recente incontro su scienza e società organizzato dall’Associazione il Mulino (la proprietaria della nostra testata) aleggiava questa seconda domanda, unitamente all’auspicio di una nuova «cittadinanza scientifica» che sostanzi una «democrazia cognitiva», per usare le affascinanti e futuristiche parole di Carlo Alberto Redi.
Difficilmente avremo le energie, la bravura e l’intelligenza di traslocare la redazione della rivista su tutte le difficili faglie del XXI secolo; ma attingendo al bagaglio dei saperi Mulino forse sapremo quantomeno riconoscerle e discuterne seriamente, in un luogo storicamente democratico, da sempre aperto e rispettoso del confronto, divulgativo per costituzione. Siamo fortunati eredi di un’immaginazione del Dopoguerra che d’istinto seppe ricalcare le promesse del logo repubblicano – fatto altrettanto di ingranaggi (lavoro) e rami d’ulivo (pace e italianità) –, una simbologia che non per caso è tornata politica alla caduta del Muro, in quel tramonto del Dopoguerra che a ben vedere è la nostra alba. 513 numeri di carta e migliaia di articoli archiviati su questo sito che oggi rilanciamo ci raccontano di buone idee che non hanno mai temuto di essere minoranza, ma che hanno sempre cercato di non rimanerlo, perché hanno sempre ipotizzato dei lettori. Vedo in questa consapevolezza il miglior auspicio per i Settant’anni che ci aspettano.
Riproduzione riservata