Ma che cosa è questo neoliberismo, causa, a sentire tanti intellettuali, di tutti i mali di cui soffre la società occidentale, Italia compresa?
Cominciamo con un po’ di storia. “liberismo” è parola inventata in Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, da emuli del tedesco “socialismo della cattedra” per criticare le posizioni di un economista liberale, Francesco Ferrara. Il termine è poi stato rilanciato dalla celebre disputa fra due pensatori liberali, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, il secondo dei quali sottovalutava, ai fini del mantenimento delle libertà, il ruolo delle istituzioni, mercato in testa. Nel mondo anglosassone non c’è un termine speciale: per market o economic liberalism si intende la dimensione economica di un regime di libertà. L’idea che esista una cosa specifica, isolabile dal resto, denominata “liberismo” ha avuto tanto successo qui da noi in virtù di una diffusa ostilità al mercato. È il frutto della convinzione che la libertà possa essere tagliata a fette. Come un salame. In modo da separare la libertà economica da quelle politiche e civili. Chi usa il termine liberismo pensa che si possano avere le libertà politiche e civili senza la libertà economica (senza il mercato). Ma, come ha spiegato Einaudi, ciò non è possibile. Simul stabunt, simul cadent. Non si tratta di un salame. Secondo un detto celebre, se le cartiere appartengono allo Stato non può esistere la libertà di stampa.
L’idea che esista una cosa specifica, isolabile dal resto, denominata “liberismo” ha avuto tanto successo qui da noi in virtù di una diffusa ostilità al mercato
Da alcuni decenni, dai tempi di Reagan e di Thatcher, il prefisso “neo” è stato aggiunto al vecchio termine. Indica una fase di forti liberalizzazioni e di parziale ritiro dello stato dall’economia. I critici anglosassoni, e non solo, sostengono che quelle politiche hanno finito per accrescere le disuguaglianze. È un tema che certamente merita di essere discusso. Anche se non condivido le sue conclusioni riconosco che Michele Salvati ha trattato con serietà l’argomento. Ma come è possibile prendere sul serio i critici del cosiddetto neoliberismo quando essi mettono nel mazzo anche l’Italia? Qui da noi nulla del genere ha mai attecchito. Il primo Berlusconi vinse la campagna elettorale usando slogan che sono stati detti neoliberisti (più correttamente: slogan ispirati al liberalismo economico). Ma il punto è che rimasero solo slogan. Tuttavia, l’idea di un’Italia travolta da una lunga ondata neo-liberista si è fatta strada diventando una indiscutibile verità in certi circoli intellettuali. Da allora, la critica al neo-liberismo è argomento costante delle conversazioni fra intellettuali. Soprattutto, si tratta di un insieme di parole d’ordine che funzionano come mezzo di riconoscimento fra gli appartenenti alla stessa tribù.
Un governo italiano decide, in una economia in cui lo Stato è sempre stato ingombrante e dominante (faceva anche i panettoni), di privatizzare una azienda? È colpevole di neoliberismo
Un governo italiano decide, in una economia in cui lo Stato è sempre stato ingombrante e dominante (faceva anche i panettoni), di privatizzare una azienda? È colpevole di neoliberismo. Non si riesce a dare vita - complici in Italia tanto la destra quanto la sinistra - a un quadro legale che favorisca la concorrenza mettendo fuori gioco rendite monopolistiche? Un evidente successo della lotta contro il neoliberismo. Così come una vittoria contro il dominante neoliberismo fu la riaffermazione della gestione pubblica delle risorse idriche. Trionfalmente sottratte alla “logica del profitto”. E tanto peggio per i consumatori.
A forza di raccontare all’opinione pubblica che siamo tutti sottomessi alla dittatura neoliberista, il verbo è uscito dai circoli intellettuali ed è stato fatto proprio da una platea più vasta. Qualche tempo addietro ascoltai stupefatto un tassista che inveiva contro il neoliberismo. Dapprima pensai che costui dovesse avere fra i suoi clienti molti intellettuali. Alla fine capii che ce l’aveva con Uber.
Come ha involontariamente chiarito il mio tassista questa mi sembra la migliore definizione possibile di neoliberismo: un pericolo per posizioni monopolistiche, per rendite di posizione, grandi e piccole.
Ma non è forse, come dicono quelli che amano svicolare, che il problema sia “a monte”? Le politiche neoliberiste non sono forse la necessaria manifestazione delle trasformazioni del capitalismo, della finanziarizzazione dell’economia, dell’affermazione della dittatura del capitalismo finanziario, naturalmente su scala globale? Quando qualcuno la mette così io alzo subito le mani in segno di resa. Non replico niente. Perché siamo arrivati finalmente al punto. Il punto è la solita vecchia cara critica del capitalismo. Ho sempre molto rispetto per gli orfani e le loro sofferenze. Dietro a tutto questo gran parlare di neoliberismo c’è la scomparsa dall’universo simbolico- politico, e per conseguenza dal lessico politico, del “socialismo”, la grande coperta ideologica che un tempo alimentava e legittimava la polemica anti-capitalista. Gli orfani del socialismo, per conseguenza, hanno dovuto reinventarsi, mimetizzarsi. Sono sorti così i neo-repubblicani e si è affermato in certi ambienti quell’ossimoro che è il liberalismo anti-liberista, ossia anti-mercato. Spero di non apparire blasfemo ma il liberalismo anti-liberista mi ricorda un altro ossimoro altrettanto geniale: anni fa, una lista che si presentò (fortunatamente senza fortuna) alle elezioni, era stata battezzata, senza ombra di umorismo, “Fascismo e libertà”.
Finita la Guerra fredda quasi tutti si sono detti liberali. Una folla. Fausto Bertinotti mi stava simpatico perché non si era piegato alla moda. Come distinguere? Come scoprire i mimetizzati? Essendo sprovvisti di uno strumento di alta precisione che, come in Blade Runner, consenta di individuare i replicanti, dobbiamo accontentarci di un metodo artigianale, fatto in casa. Nel colloquio, in mezzo a tante domande innocenti, infilerei alcune domande-chiave: “Secondo lei sono più gravi i fallimenti del mercato o quelli dello Stato?”. E, di seguito: “Illustri quali sono, secondo lei, rispettivamente, gli effetti dei fallimenti del mercato e quelli dei fallimenti dello Stato”. Scommetto che in questo modo sarebbe possibile distinguere fra i pochi (quanto meno in Italia) liberali e i tanti che non lo sono affatto.
L’accusa di neoliberismo non risparmia nessuno. Chissà se Alfredo Reichlin, antico dirigente comunista, abbia mai immaginato in vita sua che un giorno qualcuno avrebbe considerato la carta dei valori da lui redatta (insieme a Pietro Scoppola) al momento della nascita del Partito democratico, come un documento “neoliberista”. Il che, naturalmente, fa anche di Walter Veltroni, primo segretario del Pd, un neoliberista. E neoliberisti, data la stretta parentela, sono stati anche i governi Prodi: non fecero, per l’appunto liberalizzazioni e privatizzazioni?
L’accusa di neoliberismo al Pd, scegliendo un termine che non appaia troppo irridente, è per lo meno paradossale. Il Pd è, prima di tutto, un partito di amministratori locali. Se si trattasse di una banda di spregevoli “neoliberisti” essi non avrebbero privatizzato tutte quelle municipalizzate che invece si tengono ben strette?
È vero, sono colpevole dell’accusa: come dimostrano tono e contenuti di questo articolo non riesco a prendere sul serio il neoliberismo e i suoi critici. Mi sembra che sia solo l’ennesima dimostrazione della veridicità di una tesi di Joseph Schumpeter. Quella secondo cui la società capitalistica ha, insieme a tante altre, due caratteristiche. Ha allevato e alleva molti più intellettuali di qualunque altra società conosciuta. I suddetti intellettuali, a schiacciante maggioranza, si danno il compito di combattere il capitalismo. Forse non c’è altro da dire e da sapere sull’argomento.
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