Nei giorni concitati che si sono succeduti per l’elezione del capo dello Stato, tra le tante cose emerse e discusse ce n’è una, in apparenza più marginale, su cui vale la pena soffermarsi. I tanti voti «burla» che hanno caratterizzato soprattutto le prime votazioni – ad Amadeus, Bruno Vespa, Massimo Giletti, Rocco Siffredi, Bettino Craxi – commentati con divertita leggerezza da giornalisti e osservatori. In un momento così difficile come quello che stiamo attraversando, il sistema politico italiano confermava i propri limiti e la propria impotenza, e molti suoi componenti – che ci rappresentano nel cuore delle istituzioni – sceglievano di «buttarla in caciara».
Potrà, questo, essere considerato un fatto minore. Eppure è un fatto che conferma quella sorta di bolla entro cui vivono politici e giornalisti, quel «circuito politico-mediatico» apparso fortemente autoreferenziale, ancor più nel clima surreale della città in cui hanno sede le principali istituzioni politiche del Paese, svuotata dalle limitazioni per il Covid e, in particolare nei giorni scorsi, popolata soprattutto dai componenti di tale bolla, che si inseguivano gli uni con gli altri, alla caccia di una qualsivoglia dichiarazione, il più delle volte certo non indispensabile.
Niente di nuovo sotto il sole, per certi versi. La letteratura sulla comunicazione politica parla da decenni di «parallelismo politico» per spiegare le dinamiche di questo circuito, e il caso italiano è da sempre considerato uno dei più esemplari. Tuttavia due aspetti meritano di essere approfonditi.Due categorie, politici e giornalisti, centrali nella formazione dell’opinione pubblica e che eppure stanno poco alla volta perdendo il contatto con il clima del Paese
La sottovalutazione dell’inappropriatezza di quei voti «burla» da parte dei giornalisti conferma un’intrinsecità fra le due categorie, politici e giornalisti, figure centrali nella formazione dell’opinione pubblica che stanno poco alla volta perdendo sempre più il contatto con il clima del Paese. Se tale perdita di contatto è ormai da molti anni attribuita a una classe politica in costante scollamento dal Paese, come mostrano anche i mutevoli risultati elettorali degli ultimi decenni, appare un problema rilevante per il sistema mediatico e, più specificamente, per i newsmedia, che pure negli stessi anni hanno acquisito una progressiva centralità nel racconto della realtà.
È un po’ come si stesse andando oltre il parallelismo politico per giungere alla strutturazione di un’unica comunità interpretativa, se si vuole riprendere la fortunata locuzione utilizzata nel 1993 da Barbie Zelizer, una delle principali studiose di giornalismo, per spiegare come la continua quanto ineludibile frequentazione portasse i giornalisti ad avere un’analoga prospettiva sui fatti da raccontare, producendo una definizione della realtà condizionata dalla loro comune esperienza.
Si potrebbe allargare il discorso per dire che l’assidua frequentazione fra politici e giornalisti genera una comunità interpretativa più ampia, ma che rischia di peccare di presbiopia, cioè di una tendenziale incapacità nel fornire il giusto inquadramento agli eventi perché a loro troppo vicini. Un rischio – quello di confondersi con il proprio oggetto d’osservazione – presente anche in altri ambienti; come sanno bene gli scienziati sociali, da sempre vigili affinché questo limite non infici le proprie osservazioni e le proprie analisi. Ma che sta creando un effetto distorcente, con la conseguente accentuazione dello scollamento fra le élite e i cittadini, riscontrabile ormai quotidianamente.
C’è una causa strutturale – e siamo al secondo aspetto della nostra riflessione – in questa progressiva chiusura nella bolla: il modo con cui nell’ambiente digitale si intrecciano, spesso sovrapponendosi, le voci dei diversi attori. Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri l’hanno definita «sfera pubblica interrelata», caratterizzata da una maggiore orizzontalità comunicativa, per cui la costruzione dell’agenda pubblica ormai da tempo va ben oltre la tradizionale linearità verticale che dalle fonti produttrici dei fatti arrivava al pubblico attraverso la mediazione giornalistica. Tuttavia, tale orizzontalità determina un’evidente processualità nella definizione dell’agenda, che è sempre in divenire, e una conseguente tensione costante prodotta dalle mille interpretazioni e reazioni che si accavallano in tempo reale ai fatti, mentre questi accadono.
Un esempio – tratto proprio dalla fase finale di questa convulsa settimana elettorale – chiarisce bene quanto stiamo argomentando. La sera di venerdì 28 gennaio due dei principali leader politici – Matteo Salvini e Giuseppe Conte – dichiarano al solito capannello di telecamere, microfoni e taccuini che si è raggiunta un’intesa fra le principali forze di partito per eleggere una presidente donna. Parte subito un fuoco di fila di ipotesi e discussioni e rapidamente si assegna un nome e cognome a tale indicazione nella persona di Elisabetta Belloni. Né Salvini, né Conte l’avevano nominata. Ma la loro dichiarazione non poteva essere così ingenua da non prevedere che sarebbe subito partita la caccia al nome, producendo conseguenti reazioni da parte degli altri rappresentanti politici. Quanto, infatti, prontamente successo, fino ad arrivare al rapido superamento dell’elezione della prima presidente donna.Differenti canali s’intersecano in continuazione: dal vorticoso turbinio degli hastag social alla maggiore riflessività dei legacy media, costretti comunque a tener conto dei trending topics
Questa circolarità informativa incide dunque nell’evoluzione di qualsiasi tema in agenda, con un gioco di rimandi e collegamenti che interessa non soltanto i vari attori presenti nella triangolazione fonti-sistema giornalistico-pubblico, ma anche i differenti canali, che s’intersecano in continuazione: dal vorticoso turbinio degli hastag social, che associano punti di vista e riflessioni, alla maggiore riflessività dei legacy media, costretti comunque a tener conto dei trending topics, circolazione di opinioni che si solidificano in fatti, diventando rilevanti nella misura in cui sono capaci d’attirare maggiori o minori aggregazioni. Proprio quella interrelazione prima richiamata.
Questa evoluzione porta a un maggiore addensamento di fatti, opinioni e ripercussioni prodotte da un accresciuto numero di attori sociali pronti a intervenire sulla scena. La progressiva indignazione per i voti «burla» dati a personaggi televisivi e dello spettacolo – da cui siamo partiti – è derivata proprio dalla possibilità per i cittadini di manifestare il loro disappunto in tempo reale, permettendo ai giornalisti e ai politici di recepirla prontamente e di cambiare tono e comportamento. Tale maggiore densità favorisce quell’effetto presbiopia prima richiamato, che crea dei bias interpretativi di non poco conto. Sempre per restare alle recenti elezioni, non è un caso se l’azione dei singoli leader e dei loro partiti sia stata molto spesso analizzata e giudicata non sulla base della loro reale forza parlamentare, quanto – piuttosto – fondandosi sui mutati rapporti di forza delineati dai sondaggi degli ultimi mesi.
Siamo quindi di fronte a un groviglio di posizioni che spiega la crescente porosità delle agende pubbliche, e delle forme attraverso cui sono costruite, e favorisce veri e propri cortocircuiti nella descrizione e interpretazione della realtà. Occorrerebbe che l’opinione pubblica fosse consapevole delle nuove dinamiche attraverso cui si forma; ma ancor più che questa consapevolezza la possedessero quanti – a cominciare proprio da politici e giornalisti –in tali processi occupano un ruolo centrale.
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