Il sottoutilizzo e l’abbandono di alcuni insediamenti in Italia è un fenomeno di lunga durata. Lo spostamento dalle montagne alpine e appenniniche verso pianure, valli e conche e dall’interno della penisola verso le coste è stato registrato e a lungo analizzato da diversi studiosi. Dapprima dai geografi e gli economisti agrari che tra le due guerre hanno condotto una grande indagine sullo spopolamento montano. Poi, nel secondo dopoguerra, da demografi, geografi e urbanisti che hanno raccontato la contrazione non solo delle “terre alte” con economie e accessibilità ai servizi di base sempre più fragili, ma anche di alcuni contesti di pianura in cui all’agricoltura meccanizzata e industriale non si sono sostituite altre attività. Il tutto in un processo di generale passaggio da una crescita assai significativa della popolazione alle sue successiva stabilizzazione e invecchiamento.

Per questi territori della contrazione, in particolare nel Mezzogiorno, si sono messe in campo politiche diverse: tentativi di inserimento “in corsa” nelle traiettorie prevalenti dello sviluppo e della patrimonializzazione (con sostegno alla industrializzazione e soprattutto al turismo) oppure interventi di tipo compensativo e assistenziale. Tuttavia, ha prevalso in definitiva l’idea dell’inevitabilità di un lento abbandono e della necessità di tutelare solo alcuni paesaggi e insediamenti storici. Più recentemente è maturata qualche visione di futuro e qualche politica territoriale che scommette su forme di sviluppo place-based capaci di attivare le risorse locali (acque, boschi, forme di socialità di paese, saperi artigianali coniugabili con tecnologie avanzate). Lo sforzo è quello di promuovere nuove economie e di contabilizzare le risorse socio-ambientali e i grandi servizi ecosistemici che questi territori forniscono agli altri territori italiani. Parimenti nel riuso di edifici e infrastrutture storiche non si persegue solo una finalità storico-conservativa. Quel patrimonio innovato diventa una “presa” per nuovi progetti imprenditoriali e di vita. Alla maturazione di questo paradigma hanno contribuito collettivi di studiosi di diversa provenienza, associazioni culturali, qualche associazione di amministrazioni e alcune politiche nazionali.

Tra strategie nazionali (come quella per le aree interne), politiche locali e alcune “controstorie” avulse da approcci di policy, oggi possiamo cogliere alcune dinamiche, se non di vero ripopolamento, di arresto dello spopolamento. Esse stentano tuttavia a scalfire l’egemonico pensiero unico delle politiche settoriali che — dalla sanità alla scuola, all’edilizia, ma anche nel sostegno all’imprenditorialità e alla cooperazione — risultano indifferenti ai diversi contesti geografici e ambientali — o incapaci di adattarsi alle loro specificità — e non riescono ad integrarsi tra loro. Inoltre, questi approcci faticano a far propria l’idea che non tutti i contesti potranno essere riabitati e che il rilancio delle aree interne dovrà passare anche per un ridisegno della loro struttura insediativa. Questa incapacità diventa particolarmente evidente in alcune inutili ricostruzioni post-terremoto (a titolo esemplificativo la scommessa sulla rinascita di Camerino non può che essere prioritaria rispetto a qualsiasi altro comune marchigiano, parimenti non tutte le frazioni di Arquata del Tronto potranno essere ricostruite).

Una nuova e più recente contrazione. Negli ultimi anni, quando non si tratta di decenni, i processi di contrazione stanno tuttavia investendo porzioni di territorio che sono stati al centro del processo di urbanizzazione novecentesca. Non si tratta più solo di migrazioni interne che svuotano parti omogenee di territori poveri e marginali, agrari e forestali, ma di più variegati e distribuiti processi di declassamento, svalutazione e deterioramento in contesti che avevano conosciuto stagioni di crescita non sempre foriere di vero sviluppo. Parimenti si tratta di fenomeni che cominciano a risentire della negatività del saldo naturale dell’intero Paese laddove questo non è compensato localmente dalla positività del saldo migratorio.

Alcuni sistemi metropolitani in contrazione. Questi territori insistono in misura limitata sulle città metropolitane de jure e de facto (Torino, Milano, Venezia, Bologna, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Messina, Catania, Palermo, Cagliari) e sui sistemi urbani più complessi (Padova, Verona, Brescia, Bergamo, Parma, Reggio Emilia, Modena, Prato, Perugia, Taranto, Trieste e Como). Tra le città metropolitane si segnalano in contrazione complessiva ed anche nel loro comune centrale solo i casi di Genova, Messina e Reggio Calabria (tab. 1). Tra gli altri sistemi urbani di rango metropolitano — secondo la definizione di Functional Urban Areas dell’Ocse — si segnala in contrazione complessiva la sola realtà di Taranto (tab. 2). In queste realtà si registrano pesanti cadute dei valori immobiliari, disinvestimento nella manutenzione del patrimonio edilizio e, più eccezionalmente, nuovi processi di dismissione che si affiancano alle più pervasive dismissioni dei piani terra commerciali, di aree industriali e di alcuni spazi pubblici che avevano ospitato servizi urbani non più necessari (mattatoi comunali, mercati coperti comunali ecc.).

 

Tab. 1. Dinamica demografica tra 2011 (popolazione censuaria al 9 ottobre) e 2019 (popolazione anagrafica al 1 gennaio) delle Città Metropolitane italiane.

Fonte: Elaborazione su dati Istat.

Tab. 2. Dinamica demografica tra 2011 (popolazione censuaria al 9 ottobre) e 2019 (popolazione anagrafica al 1 gennaio) delle Aree Urbane Funzionali italiane di rango metropolitano, escluse quelle delle Città Metropolitane.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

Come si evince dalle tabelle e dalla figura, le dinamiche di contrazione dei comuni centrali a favore delle cinture metropolitane si sono arrestate, e nella maggior parte dei casi sono le città centrali a crescere di più (come accade in modo macroscopico a Milano). Il declino di città centrali come Venezia e Napoli va letto come esito della sostituzione problematica — per le sue implicazioni socio-urbanistiche — di quote di residenti con popolazioni temporanee, specialmente turistiche — aspetto che va segnalato anche per la zona centrale di Roma, paragonabile per estensione a molti altri comuni capoluogo di città metropolitane. Una dinamica di contrazione della città capoluogo di natura differente investe tuttavia in tempi recenti (a partire in particolare dal biennio 2013-2014) la città di Torino dove, a differenza di Venezia, Napoli e del primo municipio di Roma si registrano forti riduzioni nei valori immobiliari.

Nel complesso queste dinamiche sembrano simili a quelle che si riscontrano in altri contesti nazionali: entrano in crisi sistemi urbani (o perlomeno città centrali) segnati dall’industrializzazione fordista o sistemi urbani collocati in macro regioni deboli.

Nella “Italia di mezzo” più forti segnali di recente contrazione. La contrazione investe tuttavia anche altre situazioni insediative italiane, in una Italia di mezzo né interna né metropolitana, conferendo al nostro Paese alcuni tratti di originalità rispetto al panorama internazionale. In parte contenuta interessa le tipiche città medie italiane (e le loro piccole aree funzionali). Tra i 42 sistemi urbani di rango medio definitivi dell’Ocse — escludendo Messina e Reggio Calabria in quanto Città Metropolitane — solo sei (Avellino, Brindisi, Catanzaro, Ferrara, Potenza e Trapani) perdono popolazione tra 2011 e 2019 sia nella city che nella commuting zone. Altre due realtà (Caserta e Vicenza) calano solo nella città centrale, mentre sono 14 i sistemi urbani che crescono nella city e si contraggono nella cintura. Tra i 18 sistemi urbani di piccolo rango solo tre (Andria, Gela e Savona) vedono una contrazione complessiva. Nessuna di queste realtà perde popolazione nel solo comune centrale, mentre la sola Campobasso vede una contrazione esclusivamente dei comuni di cintura. Tra i rimanenti 39 capoluoghi provinciali decrescono in 19 di cui solo 14 di almeno l’1%. In generale queste realtà, dopo alcuni anni di contrazione dei capoluoghi dovuta alla forte suburbanizzazione residenziale, tendono a guadagnare popolazione per ragioni legate alla ripresa delle economie di servizio all’agricoltura e alla manifattura – e non solo ai residenti e ai turisti – ma probabilmente anche per la ricerca di maggiori sicurezza e urbanità.

Inedite e inaspettate contrazioni si registrano piuttosto in alcune urbanizzazioni periurbane diffuse e in quelle campagne urbanizzate che con la loro crescita hanno tanto caratterizzato il nostro Paese nell’ultimo trentennio del Novecento. Facciamo riferimento almeno a quattro situazioni di urbanizzazione emerse progressivamente tra gli anni Settanta e la fine del secolo:

a) non poche conurbazioni lineari di fondovalle, che talvolta inglobano città medio-piccole con duplice connotazione industriale (distrettuale o non) e di servizio (commerciale e pubblico) a vasti territori montani-collinari interni, che oltre al ridimensionamento manifatturiero e dei presidi ospedalieri e commerciali (spostati più lontano) scontano anche un quadro ambientale e insediativo caratterizzato da inquinamento, congestionamento ed elevato consumo di suolo;

b) alcune conurbazioni “reticolari” di pianura che sono cresciute in coevoluzione con distretti industriali entrati in crisi (piemontesi, friulani, marchigiani e meridionali), ovvero in cui le “multinazionali tascabili” non riescono a compensare in termini occupazionali la crisi delle altre Pmi del territorio, mentre la crescita di una nuova economia terziaria rimane contenuta;

c) tratti di urbanizzazioni costiere di pessima qualità edilizia, poco e male infrastrutturati, in cui sono state erose e danneggiate le risorse primarie paesaggistico-ambientali che ne avevano fatto da volano (ad esempio in Calabria);

d) contesti di campagna urbanizzata con economie agroindustriali poco dinamiche e innovative in cui progressivamente diminuiscono le occasioni di sviluppo e di lavoro.

Alla ricerca di appropriate strategie e politiche per questa differente contrazione. Per tutte queste (altre) “Italie” in contrazione — che non coincidono con le aree interne — sembra manchi una adeguata attenzione da parte delle politiche pubbliche. In primo luogo, le loro dinamiche demografiche e di sottoutilizzo del patrimonio edilizio-infrastrutturale meriterebbero di essere meglio osservate e interpretate. Tali dinamiche andrebbero poi opportunamente confrontante e spiegate in relazione agli andamenti generali della popolazione e delle economie del Paese. In secondo luogo, bisognerebbe interrogarsi sul ruolo della “abitabilità” e sulle effettive opportunità di trasformare questi territori in contrazione. Con ogni probabilità le loro economie manifatturiere, logistiche e agricole si attesteranno su un basso numero di addetti e occupati, ma rimarranno strategiche per molte economie nazionali, tanto più se si coglieranno i rischi di un eccesso di specializzazione su base nazionale. Nello stesso tempo sembra sempre più necessario affrontare l’emergenza ambientale-ecologica e le pessime condizioni insediative e paesaggistiche che potrebbero diventare fattori specifici di nuove emigrazioni da parte proprio dei giovani potenzialmente più capaci di generare nuove iniziative imprenditoriali. Bisognerebbe infine immaginare, in alcuni casi, processi di riduzione dello spazio edificato e urbanizzato, attraverso demolizioni strategiche in chiave di riqualificazione ambientale e di messa in sicurezza del territorio. Si tratterebbe di una sfida radicale per una urbanistica che ha sempre pensato alla rigenerazione dell’esistente entro processi e scenari di crescita delle popolazioni, delle attività insediate, degli investimenti immobiliari e delle redditività.