Il Marocco è in semifinale. Il campionato del mondo di calcio in corso in Qatar ci regala una rivelazione sportiva, una squadra che mette insieme tanti giocatori nati in Marocco e poi cresciuti professionalmente all’estero. Il cosmopolitismo di questa bella squadra è rivelatore della diaspora marocchina che, sul finire del secolo scorso, si è diffusa e radicata in tanti Paesi, non solo europei. In Italia la comunità marocchina, la prima a strutturarsi nel nostro Paese già a partire dagli anni Ottanta, quando per molti “marocchino” divenne un termine utile per appellare qualsiasi persona riconducibile allo stereotipo dell’arabo-musulmano, è oggi una delle più numerose tra quelle nord-africane. “Marocchino” è, ovviamente, uno stereotipo razziale applicato agli individui che, non a caso, va di pari passo con quello che identifica la nazione di origine o di appartenenza. In fin dei conti, la storia della decolonizzazione si può sintetizzare nel progetto politico delle etnie colonizzate di ergersi finalmente a nazioni indipendenti, con tutte le contraddizioni che ne seguirono in Africa ancora prima che in Europa.
Le migrazioni dei marocchini verso l’Italia sono state e continuano a essere per lo più migrazioni di lavoro, spesso non specializzato; che col tempo diventano anche ricongiungimenti familiari. Attraverso le migrazioni sono passati e continuano a passare i progetti di mobilità sociale di tante persone che, legittimamente, coltivano l’aspirazione a vivere una vita migliore di quella che la loro comunità di origine può loro riservare. Ad oggi, secondo i dati ufficiali, che hanno però il limite di contabilizzare solo coloro che possiedono un titolo valido di residenza, i marocchini in Italia sono circa 450 mila. Molte di queste persone hanno una anzianità migratoria elevata, tanto che negli ultimi anni i nuovi cittadini italiani di origine marocchina sono stati nell’ordine di 20 mila l’anno. La comunità marocchina è dunque una comunità di lavoratori, spesso stabile e fortemente inserita nel tessuto non solo socio-economico ma anche istituzionale del Paese di accoglienza. Una presenza spesso discreta, che come quella di tanti altri lavoratori migrati nel nostro Paese passa inosservata.
La comunità marocchina presente in Italia è dunque una comunità di lavoratori, spesso stabile e fortemente inserita nel tessuto non solo socio-economico ma anche istituzionale del Paese
Le vittorie che hanno portato la squadra marocchina alla semifinale dei mondiali di calcio – prima volta per un Paese africano – hanno avuto un effetto sociale ancor prima che sportivo; quello di “rivelare” la presenza dei marocchini in Italia, come in diversi altri Paesi dell’Unione europea. La festa dei marocchini è stata anche la festa di amici e simpatizzanti italiani, oltre che quella di altri cugini arabofoni, tunisini ed egiziani. C’erano tutte le premesse affinché un evento sportivo aiutasse in quella difficile opera di costruzione sociale e culturale di un’Italia plurale, se non di un’Italia inclusiva. In fin dei conti, nella retorica dell’accoglienza, includere vuole dire pur sempre assimilare, vecchio vizio di epoca coloniale. Perché allora non ribaltare la prospettiva e pensare alle migrazioni come una risorsa strategica per rendere plurale la costruzione sociale dell’identità italiana?
Quella marocchina è una delle comunità straniere più importanti, non solo da un punto vista numerico. Eppure gli italiani di Marocco sanno pochissimo
Per molti, consapevolmente o inconsapevolmente, è già così; spesso, in particolare, per i più giovani, per i quali è del tutto normale avere amici o amiche con storie familiari che portano a scoprire tanti Paesi più o meno lontani. Per tanti altri, questa sembra ancora una sfida improba, almeno a giudicare dai vari episodi di intolleranza che si sono accompagnati verso coloro che festeggiavano il Marocco. La stessa stampa italiana di questi giorni è ricolma di stereotipi razzializzanti – i giocatori nati altrove ma di sangue marocchino – e paternalistici – i tifosi che puliscono le piazze dopo aver festeggiato e dunque da considerarsi abbastanza educati per poter restare in Italia. Non è poi mancato chi si è avventurato a tracciare improbabili genealogie tra calcio e politica, assimilando il successo sportivo a un presunto carattere democratico del Marocco, come se in questo si potesse riassumere la bontà o meno di una società. Al di là dell’improvvisazione di tanti cronisti o di quanti si sono riscoperti esperti di Marocco, resta la contraddizione di fondo: quella marocchina è una delle comunità straniere più importanti, non solo da un punto vista numerico, eppure gli italiani di Marocco sanno pochissimo. Spesso l’asimmetria culturale e conoscitiva è una delle eredità più pesanti nelle migrazioni post-coloniali come è quella marocchina verso un’Europa che spesso si confronta con gli altri partendo ancora da un certo presupposto di superiorità e intrinseca bontà. L’auspicio è allora che le vicende calcistiche della nazionale marocchina possano trasformarsi in un’occasione per conoscere meglio il Marocco e per guardare con curiosità a un’Italia sempre più plurale.
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