L’Inchiesta sull’università malata e sulla strage silenziosa del merito pubblicata qualche settimana fa da «la Repubblica» e la risposta critica uscita su questa rivista hanno suscitato molte reazioni. Ne è seguito un video-forum di discussione a cui hanno preso parte, oltre al giornalista Corrado Zunino, anche la ricercatrice Agnese Rapposelli, la ministra Cristina Messa e chi scrive. Innanzitutto, un grazie. A Zunino per aver promosso e coordinato il confronto. A Rapposelli per il coraggio e la tenacia dimostrata e per il suo cv che testimonia la qualità del suo percorso di studi e di ricerca. Infine, alla ministra per essere intervenuta in prima persona nel dibattito.
Ciò premesso, devo ritornare sulla questione della «mala-università». La ministra ci ha fornito un’informazione importante, dicendo che in Italia si svolgono dai 2.300 ai 3.200 concorsi all’anno. Il giornalista l’ha incalzata affermando che «un terzo di questi concorsi negli ultimi tre anni sono stati contestati». Questo dato mi ha fatto sobbalzare almeno quanto lo aveva fatto il numero dei ricorsi (5.000 nel periodo 2014-2020) pubblicato nell’inchiesta. Un valore elevato, che fa immediatamente impressione, ma che per essere compreso correttamente richiede un denominatore.
Per prima cosa dobbiamo tenere presente che i ricorsi fanno riferimento a due tipi di valutazioni, molto diverse tra loro. Da un lato ci sono le valutazioni «comparative» che hanno luogo nei concorsi locali, dove si presentano più candidati per un solo posto. Dall’altro, ci sono le valutazioni «abilitative» che avvengono nell’ambito dell’Abilitazione scientifica nazionale (Asn), in cui si presentano moltissimi candidati e il numero di abilitati non è predefinito in partenza. I dati forniti dalla ministra fanno riferimento ai concorsi locali.
Mi sono preso la briga di fare due calcoli. Il primo è basato su dati certi provenienti dal mio ateneo che, gentilmente, me li ha messi a disposizione. Il secondo, in assenza di dati certi, è basato su una congettura ed è riferito al quadro nazionale. Nell’ateneo di Torino tra il 2014 e il 2020 sono stati svolti 1.540 concorsi, 24 dei quali sono stati oggetto di ricorso. Si tratta di un tasso pari all’1,6%. Una percentuale, mi verrebbe da dire, non particolarmente elevata, anche tenendo conto che non sempre i ricorrenti vincono il ricorso. Con riferimento al quadro nazionale, tuttavia, un calcolo di questo genere perde significato. È infatti necessario fare riferimento al numero dei candidati che sono transitati attraverso le valutazioni abilitative nazionali (Asn) e le valutazioni comparative locali (i concorsi banditi nei vari atenei). Nel periodo indicato dall’inchiesta di «la Repubblica», ci sono stati circa 77 mila i vincitori dell’abilitazione nazionale. Facendo una media dei dati forniti dalla ministra Messa, a ciò vanno aggiunti circa 19.250 vincitori di concorsi locali. A questo punto è possibile fare una stima prudenziale di quanti candidati (non persone) siano transitati attraverso processi valutativi e dare così un denominatore al numero di ricorsi presentati. A mio avviso, si tratta di poco più di 190 mila candidati, con un tasso di ricorso che si aggira, perciò, intorno al 2,6% (per inciso al di sotto della soglia massima di errore ritenuta accettabile in statistica che, per convenzione, viene fissata al 5%). Si tratta di una stima approssimativa, l’ho anticipato. E, tuttavia, la ritengo realistica.
In percentuale, il numero dei ricorsi fa un’altra impressione. Si dirà che quella è solo la punta dell’iceberg. Ma allora così si sfugge del tutto a una discussione basata su dati fattuali e soggetta a falsificabilità. Che sono i canoni del ragionamento scientifico. Voglio essere però chiaro su un punto. Sebbene sappia che non sempre i ricorrenti hanno ragione, non intendo minimante affermare che le questioni sollevate da chi fa ricorso siano prive di fondamento. Semplicemente non lo so. So invece per certo quanta delusione e sofferenza si celi dietro ogni concorso non vinto. Anche io, come la ministra Messa, come moltissimi altri docenti e ricercatori italiani in passato abbiamo perso dei concorsi. Con gli anni, entrando a far parte di molte commissioni, ho imparato che non esiste una scienza esatta della valutazione. Dietro errori concorsuali c’è sicuramente, in alcuni casi, malafede. Ma c’è anche un dibattito interminabile, all’interno della comunità scientifica, su come si debbano valutare le pubblicazioni, ponderare i titoli, usare criteri quantitativi e/o qualitativi. Torno però al punto da cui sono partito. La percentuale fornita dal giornalista sul contenzioso concorsuale è sicuramente sbagliata. Una svista. Poco male, basta correggere l’errore, altrimenti il rischio è quello di disinformare i lettori.
Mi sono chiesto in questi giorni, perché quest’inchiesta mi abbia indignato così tanto. Per due motivi essenzialmente. Il primo è di tipo politico-culturale; il secondo è legato al timore dei danni che ne possono discendere per l’università italiana. La prima motivazione mira a contrastare la cultura del «vaffa», che non ha prodotto niente di positivo per il nostro malandato Paese che, al contrario, ha bisogno anche di un po’ di speranza e di critiche costruttive. Questo tipo di denunce generalizzate, invece, innesca un meccanismo di sviamento dell’attenzione, generando capri espiatori senza presentare i problemi strutturali che stanno dietro gli scandali denunciati.
Queste denunce innescano un meccanismo di sviamento dell’attenzione, generano capri espiatori senza presentare i veri problemi strutturali Analizziamo come opera questa cultura del «vaffa» nel caso specifico di cui ci stiamo occupando. Parto da alcuni «fatti stilizzati» che fanno da sfondo a tutta la vicenda:
1. Ci sono moltissimi giovani ricercatori italiani che non riescono a entrare nell’università italiana. Molti di essi non passano l’Abilitazione nazionale. Molti altri, prima o dopo aver conseguito l’Abilitazione, non riescono a vincere concorsi locali.
2. Negli atenei italiani si accede a un contratto a tempo indeterminato (nella posizione di professore associato) dopo lunghissimi anni di precariato, con borse di studio piuttosto basse. Nel complesso, la carriera universitaria procede molto a rilento. Nel video-forum di «la Repubblica», la ministra Messa ha fornito dei dati in proposito che fanno riflettere. Meno di un terzo di coloro che hanno conseguito l’Abilitazione nazionale, a partire dal 2012-2013 sono stati chiamati in ruolo.
3. In conseguenza di quanto sopra, l’età media degli accademici italiani è una delle più alte in Europa. Quasi la metà hanno più di cinquant’anni, appena il 14% ne ha meno di trentacinque.
4. Questo drammatico sotto-reclutamento di giovani produce un’ulteriore conseguenza nefasta. Un drastico aumento del rapporto docenti-studenti, ancora una volta tra i più alti in Europa. In Italia il rapporto è di 1 docente per 20 studenti, il doppio che in Germania e superiore alla media europea (che è di 1 a 15). Questo riduce la qualità della didattica e provoca un enorme sovraccarico di lavoro per tutti, docenti e ricercatori. Faccio un esempio concreto. Nel mio dipartimento a Torino – uno di quelli considerati di eccellenza dal ministero e che quindi godono di un extra-finanziamento – il rapporto docenti-studenti è di 1 a 90! Questi numeri indicano una patologia del sistema, che non garantisce un diritto fondamentale dei nostri studenti: quello di avere una qualità elevata della didattica. Come possiamo, con questi numeri, garantire agli studenti l’attenzione che meritano?
5. Il carico sopportato dagli accademici (baroni e non baroni, giovani e vecchi) viene ulteriormente aumentato e complicato dalla burocratizzazione della valutazione (oggi si scrivono più pagine di verbali che di saggi scientifici), così come dalle esigenze imposte dalla ricerca e dalla cosiddetta «terza missione», che riguarda la diffusione nella società dei risultati di quest’ultima. Questi dati indicano uno stato di malessere e sovraccarico che ha raggiunto un punto di non ritorno e investe non solo chi tenta di entrare in ruolo (e magari non ci riesce pur avendo un buon cv), ma anche tutti i docenti e i ricercatori, specialmente quelli che si trovano nelle prime fasce della carriera, dove si percepiscono stipendi veramente bassi e non competitivi rispetto alle altre università europee.
È su questo sfondo che va letta l’inchiesta di «la Repubblica», perché è il classico esempio di creazione di «capri-espiatori organizzativi», che forniscono una valvola di sfogo verso cui indirizzare tanta tensione. Un meccanismo che è stato ben descritto da un sociologo dell’organizzazione, Maurizio Catino, proprio sulle pagine di questa rivista. Prima di spiegare, però, voglio sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. Gli scandali e i concorsi universitari truccati, il nepotismo e qualunque altra forma di sopruso e sopraffazione vanno denunciati. Tutti e con forza, anche perché devono essere trasformati in occasioni di apprendimento: per migliorare i meccanismi di reclutamento e per chiedersi se ci sono ragioni sistemiche che li producono. In alcuni casi, tuttavia, succede esattamente l’opposto. L’organizzazione stessa oppure la stampa che cavalca uno scandalo anziché analizzare le determinanti del problema, semplifica la questione attribuendoli ad alcuni singoli individui oppure a un’intera categoria di soggetti. Un fenomeno quest’ultimo che, nella letteratura scientifica, è conosciuto come scapetribing. Nel nostro caso: i professori ordinari che fanno strage del merito e non assumono i migliori candidati, costringendoli a scappare all’estero.
Simili semplificazioni sviano l’attenzione da problemi che dovrebbero essere affrontati con urgenza: il nostro Paese deve rafforzare e rendere più equa l’universitàSimili semplificazioni sviano l’attenzione dai problemi strutturali che dovrebbero, invece, essere affrontati con urgenza. Il nostro Paese, infatti, ha bisogno di rafforzare e rendere più equa l’università italiana.
La seconda motivazione che mi ha spinto a reagire all’inchiesta di «la Repubblica» è il timore per i danni che essa può apportare proprio alla causa che, con le migliori intenzioni, dice di sostenere. Non è la prima campagna di stampa contro i baroni a cui ho assistito. Qualche anno fa ne fu lanciata una in grande stile dal governo Berlusconi, che fu prontamente cavalcata dai quotidiani e dai mass media. Quella campagna ha prodotto un drastico taglio di risorse all’università italiana, (ripetiamolo) già allora tra le meno finanziate dei Paesi industrializzati. Tra il 2009 e il 2010 il fondo di finanziamento ordinario fu tagliato dell’11%. Ci sono voluti undici anni per ritornare ai valori precedenti! Fu bloccato il turn-over dei docenti (e tagliati i loro stipendi). Negli otto anni successivi il numero di docenti e ricercatori è stato fatto scendere da 58,9 a 53,8 mila unità e ancora oggi non siamo ritornati ai valori di partenza. Possibile non imparare mai niente dalle esperienze (sbagliate) fatte anche nel più recente passato?
Questi sono i danni che produce la cultura del «vaffanculo baroni». Che non colpisce i professori ordinari, ma proprio i giovani che pretende di tutelare. L’Italia è all'ultimo posto tra i Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per numero di laureati nella fascia di età tra i venticinque e trentaquattro anni. Gli studenti universitari che possono utilizzare servizi residenziali pubblici sono appena il 3% contro il 18% della Ue. Quelli che fruiscono di una borsa di studio sono la metà rispetto alla media europea (12% vs 25%), mentre quelli che sono esentati dal pagamento delle tasse universitarie (tra le più alte in Europa) sono appena il 13% contro una media del 30%. Il numero di dottorati conferiti in Italia è tra i più bassi dell’Unione europea ed è calato del 40% tra il 2008 e il 2019. Un quinto di loro, una volta conseguito il titolo, si trasferisce all’estero. Come dargli torto alla luce dei fatti esposti in precedenza? Molte di queste cifre sono tratte dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che prevede degli interventi in proposito. Eppure, leggendo il Piano non sono riuscito a capire (limite mio) se ci sia l’intenzione da parte del governo di avviare una seria programmazione pluriennale di reclutamento di giovani ricercatori, che ci consenta di tornare in linea con la media europea.
Concludo dicendo che a oltre dieci anni dalla riforma Gelmini abbiamo bisogno di una seria valutazione dell’esperienza fatta finora per capire cosa è andato male, cosa è andato bene e cosa c’è da cambiare. Nel video-forum di «la Repubblica» il giornalista ha chiesto alla ministra se sarebbe intervenuta con un decreto legge. Speriamo proprio che non lo faccia. Speriamo che non si producano riforme affrettate e improvvisate, come sembra essere quella attualmente in discussione alla Camera. Il Next Generation è una opportunità storica per risintonizzarci con il futuro. E questo richiede un sistema formativo all’altezza di questa sfida. L’università italiana, i nostri giovani hanno bisogno di una mano dall’opinione pubblica. Ce la date, gliela diamo?
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