Elettore. Che succede? Il negozio è chiuso?
Commesso. No signore, il negozio è aperto. O meglio aprirà come al solito alle dieci.
E. Ma come fa a essere aperto se siete tutti qui fuori?
C. Sono rimasti dentro in venti circa, tra quadri e dirigenti. Bastano loro, in una giornata di emergenza. Tutti gli altri, quasi duecento, sono qui.
E. Ma siete in sciopero?
C. Sì, è il primo sciopero di tutti i punti vendita sparsi in Italia. Non era mai accaduto prima.
E. Mah, non capisco. Compro all'Ikea sin da quando venne aperto il negozio di Milano (dev'essere stato il '90 o giù di lì) e mi è sempre sembrato che vi trattassero bene...
C. Se si riferisce a pene corporali non ne abbiamo mai subite, almeno per ora. Se scioperiamo tutti è perché Ikea vuole tagliare i nostri stipendi.
E. E guadagnate male? C'è la crisi. Non potreste accettare una piccola riduzione dello stipendio?
C. Guardi, a parte che apprezzo il fatto che lei si sia fermato a parlare con me, la questione è un'altra.
E. Vale a dire?
C. Vale a dire che Ikea sta facendo profitti e aprendo nuove sedi. Non è un'azienda metalmeccanica in difficoltà che deve ridurre il personale.
E. Ah.
C. E quindi a noi non sta bene che voglia unilateralmente intervenire sui nostri salari, perché il suo Cda ha deciso di ridurre l'incidenza del costo personale. Mentre nel frattempo aumentano altre voci di costo.
E. Ad esempio?
C. Ad esempio le prestazioni professionali esterne, le consulenze, che nell'ultimo bilancio sono arrivate a 8 milioni di euro. Costi importanti sostenuti da Ikea Property in relazione a progetti poi abbandonati in corso d'opera perché “non ritenuti più strategici”. Inoltre incidono i trasporti che facciamo sotto costo, una scelta aziendale che non deve pesare però sui lavoratori. Ma soprattutto la cosa che emerge se si va a vedere il bilancio è l'incidenza dell'apertura di nuovi negozi. Era proprio necessario? È una scelta aziendale che va nella giusta direzione?
E. Perché non dovrebbe?
C. Guardi, hanno appena inaugurato Pisa, che è costata un mucchio di denaro. Proprio mentre è emerso il fallimento di Salerno, una cattedrale nel deserto che ha portato solo dati negativi. L'anno scorso Ikea ha speso in acquisizioni 62 milioni di euro, comprese le spese che abbiamo sostenuto per le ultime tranche di pagamento di certi negozi, perché se ti espandi non lo fai “a gratis”, eh?
E. Beh, certo che no. Ma se ci sono più negozi c'è più occupazione.
C. Sì, ma che tipo di occupazione? La maggior parte di noi qui è part-time. Insomma, con 23 ore settimanali non hai uno stipendio che ti permetta di vivere.
E. Ma mille euro al mese li guadagnerete. Non che siano tanti, mi rendo conto.
C. In media noi part-time siamo sui 650, che arrivano a 800 con le domeniche e i festivi. Mi faccia però a andare avanti con il mio ragionamento.
E. Prego.
C. Dodici milioni sono stati spesi solo per riscattare il negozio di Padova. Mezzo milione per riscattare Genova, e altri quattro milioni per le loyalties di questi due negozi. Ci espandiamo, ma questi costi vengono portati avanti negli anni e pesano non poco sul bilancio. Il negozio di Pisa, l'ultima apertura, solo nel 2014 è costato 38 milioni.
E. Ma tutto questo diventa poi un capitale dell'azienda...
C. Quando funziona. Se prende Salerno, solo l'altro anno Ikea ha provveduto a una svalutazione patrimoniale di quel punto vendita di 18 milioni di euro. Un punto vendita che porta solo perdite. E quest'anno ci vengono a raccontare che se c'è crisi è colpa nostra che costiamo troppo? Siamo noi il problema di quest'azienda o chi fa le scelte sbagliate?
E. Ma non c'è un riconoscimento quando le vendite vanno meglio?
C. La posizione dell'azienda è chiara: rendere variabile il nostro stipendio. Ci pagano di più se le cose vanno bene. Ci pagano di meno se le cose vanno male. Peccato che questa idea sia venuta nel mezzo di una grande crisi dei consumi...
E. In effetti. Ma chi decide cosa fare?
C. Certo noi no, non siamo noi con il board a decidere se aprire o no un punto vendita e come. Se vogliono rendere variabile la nostra retribuzione, allora che ci invitino a decidere insieme a loro. C'è poi un'altra questione.
E. Quale?
C. L'aumento da tre a dieci milioni del fondo oneri e rischi. Anche questo in gran parte dipende da una cattiva gestione, tra l'altro di tutta la parte della fidelizzazione della clientela, con l'emissione di anticipi verso clienti (gift card e rimborsi) che in bilancio risultano come “emessi negli esercizi precedenti e non correttamente registrati”. Sono i vaucher che emettiamo per i nostri clienti, i quali poi dovrebbero tornare a spenderli. Quella frase nel bilancio che fa riferimento a carte “non correttamente registrate che potranno determinare meno incassi futuri” è tutta da interpretare. Gli errori si pagano: dobbiamo farlo noi?
E. Ma scusi, alla fine dei conti qual è l'andamento di gestione?
C. Il fatturato di Ikea Italia nel 2014 è stato pari a 1 miliardo e 589 milioni, il 2% in più rispetto all'anno precedente. Durante l'esercizio i negozi hanno ricevuto 47 milioni di visite, contro i 43 milioni dell'anno precedente. Il numero di clienti è passato da 18 a 19 milioni. Forse qualche merito l'hanno anche i lavoratori?
E. Quindi Ikea non perde?
C. Ikea fa parte di un gruppo fatto di scatole e scatoline, con controllate che vanno spesso meglio dell'azienda madre. E quindi il ragionamento va fatto considerando tutto il gruppo.
E. Mi fa un esempio?
C. Beh, c'è chi costruisce i negozi, Property. Chi ci fa arrivare la merce, Distribution.
E. Loro perdono?
C. Se si guardano i numeri sembra proprio di no. Anzi, sono in avanzo. Costruiscono negozi, fanno ampliamenti. E qualcuno ci guadagna. Solo Property nel 2014 ha guadagnato 6 milioni e mezzo di euro.
E. E le vendite, scusi, le vendite alla cassa, per capire, sono in calo, immagino...
C. Ma no. Nel 2014 le vendite hanno registrato una crescita. A differenza dei dati Istat sul commercio al dettaglio abbiamo avuto un incremento del 5,4%.
E. E per giunta siamo in crisi...
C. Sì, c'è la crisi, ma come Ikea abbiamo uno sviluppo maggiore. Avevano previsto un 3,7% di crescita e abbiamo ottenuto con il nostro lavoro un 5,4%. E allora perché devono chiedere a noi un sacrificio?
E. Scusi, perché dice “abbiamo”, “avevamo”?
C. Perché noi ci siamo sempre sentiti e ci sentiamo parte di questa azienda; alcune delle persone che vede qua fuori lavorano qui sin dalla nascita di questo negozio e sono orgogliosi di farne parte. La dirigenza non ha alcun motivo per darci lezioni di appartenenza. Né tantomeno accusarci di remare contro.
E. Tornando alle vendite. C'è poi lo shopping online. Quello non vi toglie lavoro?
C. Lo shopping online è un canale parallelo, una ulteriore fonte di reddito per l'azienda. Nel 2014 ha registrato l'87% di vendite in più rispetto all'anno prima.
E. Ma quanta gente lavora in Ikea?
C. Ikea in questo momento ha sulle proprie spalle il destino di almeno 6.000 famiglie. Che sono anche consumatori.
E. Però, a proposito di consumi, Ikea contribuisce alla crescita, visti i dati.
C. Contribuisce alla crescita dei consumi nei propri punti vendita. Ma intanto anche al calo degli altri consumi. Insomma, se Ikea cresce molti altri perdono. E, lo dico a malincuore, questa è la vera responsabilità sociale di Ikea, la grande azienda svedese. Che in realtà ha la sede legale in Olanda, per pagare meno tasse.
E. Un po' quello che vorrebbe fare Marchionne con la Ferrari?
C. Non è mica reato. Però fa pensare, o dovrebbe far pensare.
E. Ma in questo modo cerca di ridurre i propri costi, e ciò dovrebbe far piacere anche a voi, no?
C. Far piacere? Dipende da dove vanno a finire questi soldi risparmiati, visto che intanto ci chiedono di ridurre i nostri stipendi, di aumentare la flessibilità, e di ridurre la percentuale con cui ci viene riconosciuta una migliore paga oraria nel lavoro festivo. Che per Ikea è cruciale. Durante le festività natalizie si fa una parte assai cospicua del bilancio di tutto l'anno. Ma se si interviene sui nostri salari si interviene sul nostro potere d'acquisto e, alla fine, parliamo di oltre 6.000 gruppi famigliari, ne risente l'intera società.
E. Insomma, non capisco, alla fine guadagnate poco o no? Quello che lei dice è vero, però in questo momento già ad avere un lavoro c'è da essere contenti, non trova?
C. Guardi, il suo discorso mi pare pericoloso, nel senso che potrebbe portare su una brutta china. Insomma, dobbiamo leccarci i gomiti perché abbiamo un lavoro, comunque sia? Per lavorare la domenica, a Natale e in molte altre giornate di festa sacrifichiamo la nostra vita familiare e sociale. Non deve esserci riconosciuto questo? Noi co-workers con il nostro lavoro contribuiamo ogni giorno a fare di questa azienda uno dei leader mondiali nel settore dei mobili low-cost. Il nostro lavoro deve servire innanzitutto alle nostre famiglie, o ad arricchire ancora di più Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea, uno degli uomini più ricchi del mondo?
E. È una bella domanda. Devo dire che per essere un commesso lei è molto preparato. È laureato?
C. Sì, signore. E ho un dottorato. Tutto questo studiare mi sarà pure servito a qualcosa... Non trova?
E. Scusi, ma adesso devo proprio andare. Sono quasi le dieci e stanno per aprire.
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