La Calabria è estrema per definizione. Regione limite, stabilmente nel fondo delle graduatorie europee delle dotazioni e degli indicatori economici e sociali. Un destino da ultima, che appare ossificato e inscalfibile. Una regione geograficamente e cognitivamente lontana; una sorta di ombra “minacciosa” nello spazio civile italiano.
La rappresentazione e l’auto-rappresentazione della Calabria come luogo ostile, isolato, lontano, continua tutt’oggi a connotare la percezione collettiva. Allo stesso modo, persistenti e inossidabili appaiono i cliché dei calabresi: testardi, malinconici, ospitali e feroci. Un terra inesorabilmente e astrattamente estrema, arcaica o ideale per la sua arcaicità, congenitamente terra del diverso, semmai non migliore e non peggiore di altre, ma sempre diversa.
Una società locale “ruminante”, adattiva, in grado di digerire e manipolare innovazioni e cambiamenti esogeni nel perimetro della sua alterità. Una società che si occulta verso il basso e verso l’alto. In basso, per nascondere redditi, occupati, prestazioni professionali, per sottofatturare ed evadere tasse e tributi o per non perdere benefici fiscali, bonus, incentivi, servizi di Welfare. In alto, paradossalmente, per mantenere produzioni e fatturati sotto il potenziale e svilire lo stesso successo imprenditoriale per evitare che il giorno dopo bussi alla porta l’”uomo nero” del racket o dell’offerta di protezione mafiosa.
Spesso la Calabria è la faccia iperbolica dell’Italia malavitosa, clientelare, amorale, incivile. Una faccia rassicurante per tanti italiani, soprattutto del Nord, che possono giustificare e relativizzare le storture dei loro territori in confronto con la soglia limite, inarrivabile della Calabria.
Gli stereotipi tuttavia non solo deformano, diventano spesso profezie che si auto-avverano. Inducono comportamenti come se la realtà fosse quella rappresentata: l’illegalità compra altra illegalità; la bruttezza incoraggia altra bruttezza; il clientelismo foraggia altro clientelismo; la ‘ndrangheta diffonde altra ‘ndrangheta. Comportamenti che modificano a loro volta la realtà, rendendola alla fine meno distante dallo stereotipo.
È dunque diventano sempre più complesso e difficile separare la Calabria immaginata da quella reale, la patologia dalla fisiologia perché l’una e l’altra si sovrappongono, si contaminano, si confondono. Se si capisce l’una si capisce anche l’altra. L’esperienza nel patologico fa capire il fisiologico.
La Calabria ha un disperato bisogno di riconquistare il profilo di luogo “ordinario”, fisiologico. Di uscire dalla morsa passato glorioso/presente orribile. Di liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati.
Le analisi aggregate ripropongono l’idea di una regione calcificata e refrattaria al movimento, a distanza incolmabile dalle regioni-faro, quelle da imitare, da inseguire
Le analisi aggregate ripropongono l’idea di una regione calcificata e refrattaria al movimento, a distanza incolmabile dalle regioni-faro, quelle da imitare, da inseguire. Le analisi macro-sincroniche misurano la faglia, la ripropongono all’infinito, alimentano la tragedia.
Diversamente, gli sguardi micro-diacronici fanno intravedere una Calabria più mossa, fallimenti ma anche una certa vitalità sociale e imprenditoriale, per quanto puntiforme e fragile, rassegnazione ma anche sparute reazioni e conflitti per il cambiamento. Il film diacronico mostra una regione in mutamento, il più delle volte un mutamento spurio, vischioso e soprattutto disperso e non tracimante, incapace di per sé di dare il ritmo all’intero territori e alle sue diverse componenti.
Il grande cambiamento regionale si realizza nel primo quarantennio del secondo dopoguerra, poi tutto si smorza. È in quei decenni che la Calabria converge verso l’Italia “media”. Nei primi anni Ottanta i calabresi diventano “italiani” a tutto tondo per speranze di vita alla nascita, per invecchiamento, per famiglie sempre più piccole, per bassa fertilità, per scomparsa della mortalità infantile, dell’analfabetismo e delle differenze di genere nell’istruzione superiore; per case dotate di servizi igienici.
La Riforma agraria nonostante tutto rompe definitivamente il latifondo. L’emigrazione alleggerisce il mercato del lavoro regionale e le rimesse accrescono i bilanci familiari. Il sogno dell’industrializzazione esogena in settori di base accende speranze produttive. Si spopolano le montagne e le colline interne; i capoluoghi arrivano al picco di attrattività demografica, mentre i trasferimenti di residenza di lunga distanza raggiungono il culmine. Si costruiscono importanti infrastrutture: la Salerno-Reggio Calabria; l’Università della Calabria e quella di Reggio Calabria; il raddoppio del binario ferroviario Battipaglia Reggio Calabria; l’elettrificazione della rete ferroviaria Cosenza-Paola; l’aeroporto di Lamezia Terme; la trasversale Rosarno-Gioiosa.
Nell’ultimo quarantennio, ad eccezione del porto di Gioia Tauro e dell’Università di Catanzaro, non succede più nulla di rilevante: nessun disegno, nessuna infrastruttura importante, a parte il caso piccolo ma simbolicamente grande di Riace e il ciclico miraggio del Ponte sullo Stretto. È come se la regione si fosse “normalizzata” sul piano inclinato del declino.
Lo Stato ha rappresentato ed è tuttora il “grandetutto” della trasformazione.Spesa pubblica, politici e amministratori locali e nazionali sono stati e sono ancora gli attori esclusivi della regolazione socio-economica e della “modernizzazione passiva” della Calabria.
La spesa del settore pubblico allargato copre quasi tutto il Pil regionale, perlopiù spesa corrente. Le sole pensioni superano di tre volte il valore della produzione annua di agricoltura e manifattura.
I 3/4 dell’occupazione è nei servizi pubblici e tradizionali, a domanda locale. La manifattura si è eclissata; le esportazioni si attestano attorno a 700 milioni all’anno, appena il 2% del Pil
I 3/4 dell’occupazione è nei servizi pubblici e tradizionali, a domanda locale. La manifattura si è eclissata; le esportazioni si attestano attorno a 700 milioni all’anno, appena il 2% del Pil. Il reddito disponibile pro-capite è tra i più bassi in Europa mentre la disuguaglianza del reddito è più alta in Calabria che nel resto del Paese. Dunque una regione non solo molto più povera ma anche più diseguale delle altre.
Oggi, la speranza di vita in buona salute di un calabrese è poco più di 53 anni anni (la più bassa in Italia), 7 anni in meno degli italiani e addirittura 16 anni in meno dei bolzanini. La Calabria è una regione demograficamente “morta”, avvolta nella spirale bassa natalità-invecchiamento. L’Istat stima che nel 2070 i calabresi saranno oltre un terzo in meno di oggi; i bambini di 6 anni che si iscriveranno alla prima elementare e i 18-19enni, i potenziali immatricolati all’università, saranno il 40% in meno.
Quando la quantità difetta bisognerebbe occuparsi molto di più della qualità. Al declino degli alunni si dovrebbe rispondere con un maggiore impegno di cura e di attenzione per gli studenti che ci sono: servirebbe un grande piano pluriennale di lotta alla povertà educativa, alla dispersione scolastica, ai deficit cognitivi degli studenti calabresi in materie fondamentali per la vita come italiano e matematica. Alla tragedia e al rischio dell’estinzione c’è tuttavia latenza di risposta, assenza di reazioni adeguate. Basta guardare a ciò che accade alla sorte dei bonus individuali e alla domanda di servizi collettivi: file lunghe per i primi e nessuna fila per i secondi. Una bulimia di domande minute e una flebile o nulla azione collettiva.
Il futuro non è meno preoccupante e incerto del presente. Nonostante la straordinaria dotazione finanziaria ma senza mete collettive sfidanti, neppure il Pnrr sembra riuscire a scaldare e trasmettere entusiasmo, rischiando così di tradursi al più un mero manto modernizzante della Calabria che c’è e non in una grande occasione per trasformarla. I soldi non mancheranno. Ma i soldi non bastano. Piuttosto, alla Calabria servirebbe una “moratoria” sulle risorse finanziarie, un’inversione dell’iter: prima le persone, i bisogni, i desideri, i racconti, il rafforzamento delle capacità progettuali e gestionali e poi i soldi.
Che fare dunque? Forse la via maestra sarebbe candidare la Calabria a luogo prioritario di sperimentazione sociale e produttiva a scala nazionale. Non si va lontano con provvedimenti e interventi di rattoppo, con politiche routinarie o con leggi speciali, con incentivi e sussidi per mitigare le emergenze, vere o costruite ad hoc. Servirebbe una “guerra di movimento” per destabilizzare le convenienze politiche e sociali allo status quo, per spiazzare i rentier, per mettere in partita, dandogli potere, i ceti più deboli e gli innovatori. Ci vorrebbe un soggetto esterno, che non c’è, un destabilizzatore interessato all’affievolimento e alla trasformazione del carattere estremo della Calabria. Ci vorrebbe un altro Beniamino Andretta, un intellettuale e politico del Nord che agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso venne inviato a Cosenza dallo Stato da un lato per avviare la costruzione dell’Università della Calabria, un ateneo intenzionalmente orientato a introdurre discontinuità e rotture nel sistema di potere locale attraverso l’immissione di nuove figure sociali (ingegneri idraulici, sociologi-economisti) opposti ai notabili e ai ceti professionali dominanti, e dall’altro per innovare la rigida organizzazione del lavoro accademico italiano per cattedre e istituti introducendo per la prima volta proprio nell’Unical i dipartimenti e le strutture interdipartimentali.
Non una richiesta di maggiori trasferimenti di risorse pubbliche. Lo Stato (e/o l’UE) dovrebbe mobilitare conoscenze e competenze adeguate, modelli organizzativi, gruppi coesi di esperti e di funzionari pubblici qualificati e motivati, impegnati in una sorta di missione nazionale per la Calabria. Conoscenze e capacità esterne che dovrebbero affiancarsi alle conoscenze e alle capacità locali per irrobustirle e garantire l’assorbimento di nuove routine nell’azione pubblica.
Il centro e le politiche nazionali sono determinanti per lo sviluppo regionale-locale. Per tanti ragioni, finanziarie e non. Il problema non è il centro bensì il centralismo
Alla Calabria non serve il “regionalismo differenziato”. Allo stato attuale la Regione non è in grado di gestire con efficacia né i poteri già in suo possesso né le risorse finanziarie già oggi disponibili. Sarebbe un vero disastro un ulteriore decentramento di funzioni, peraltro in settori cruciali come la scuola, l’energia, la ricerca, le grandi infrastrutture. La regione non può fare a meno dell’accompagnamento e del sostegno esterno. Non per essere bypassata, commissariata. Al contrario, per essere aiutata a svolgere appieno le proprie funzioni, per orientare la sua azione all’innalzamento del benessere collettivo e della dotazione di beni pubblici.
Il centro e le politiche nazionali sono determinanti per lo sviluppo regionale-locale. Per tanti ragioni, finanziarie e non. Il problema non è il centro bensì il centralismo: l’idea cioè che da Roma, da Bruxelles o da Catanzaro si decidano i destini dei luoghi con interventi e politiche standard, indipendentemente dalle caratteristiche, dalle aspirazioni, dai bisogni, dalle conoscenze, dai saperi e dalle pratiche accumulati nei singoli territori. Serve un centro capace di ascoltare chi vive nei luoghi, in grado di costruire opportunità su misura per chi c’è, capace di valorizzare le varietà in un disegno unitario nazionale. La Strategia nazionale per le aree interne (Snai), promossa da Fabrizio Barca quando era ministro nel governo Monti, è l’esempio recente più virtuoso del “metodo” sotteso all’idea di centro necessario, forse per questo a lungo osteggiata e di fatto abbandonata.
Un centro irrinunciabile, seppur sempre più difficile da trovare.
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