Sono ormai anni che ci si interroga sul progressivo impoverimento del discorso pubblico, sulla difficoltà di individuare luoghi adeguati a reggere l’architettura di un pensiero che sappia resistere agli umori del momento e consolidarsi in progettualità. Di tale impoverimento spesso sono accusati i media, certamente diventati da tempo il palcoscenico più evidente su cui rappresentare temi e problemi, soggettività in contrasto fra loro ed eventi emblematici. Un posto di riguardo, all’interno del sistema mediatico, lo ha l’informazione giornalistica, in quanto deputata a scandire il ritmo dei «tempi che corrono». Si potrebbe affermare che il giornalismo rappresenti il metronomo del discorso pubblico, dettandone i tempi e i modi.

Eppure anche i media, e ancor più il giornalismo, sembrano disorientati e investiti dall’ambivalenza della forza attribuibile alla loro crescente centralità, ma fiaccata da un declinante prestigio, dovuto anche all’incessante trasformazione dei modelli produttivi e distributivi, che incidono sulle caratteristiche dei contenuti veicolati e sulle forme attraverso cui circolano.

Tempi confusi. E come sempre capita in questi momenti, è facile individuare dei capri espiatori a cui attribuire tutte le colpe: non solo i media, ma ancor di più la Rete e i social network, accusati di ogni nefandezza. Anche se poi, come colpiti da una collettiva sindrome di Stoccolma, non riusciamo a staccare gli occhi dallo smartphone, né a fare a meno di inseguire ogni dichiarazione a mezzo social, rendendoci deliberatamente schiavi delle dirette Facebook, da cui ogni persona che conta – non in senso figurato ma proprio concretamente in termini di follower e condivisioni – lancia giudizi e, soprattutto, strali. Non è un caso, allora, se Luca Morisi, il responsabile della comunicazione del leader politico europeo maggiormente seguito sui social, il leghista Salvini, con un’ironia che pure si fatica a cogliere nel resto delle sue produzioni definisce la macchina organizzativa che ha messo su «la bestia».

Ma piuttosto che accettare questa sottomissione alla «bestia», è forse opportuno chiedersi se l’importanza attribuita ai social non sia la caduca conseguenza di problemi più strutturali, che richiederebbero un ragionamento più ampio. In queste pagine e, poi, nei contributi che caratterizzano la sezione monografica di questo numero cercheremo proprio di fare questo: allargare il discorso. Ben consapevoli, ovviamente, che proprio l’ampiezza del tema e le tante sfaccettature che presenta renderanno le nostre considerazioni parziali. Ma contiamo di lanciare il classico sasso, sperando che molti lo raccolgano e rilancino.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 4/19, pp. 546-554, è acquistabile qui