La lezione di Dakar. Per la seconda volta dalla sua indipendenza, il Senegal conosce l’alternanza pacifica: se nel 2000 il liberale Abdoluaye Wade aveva sconfitto il presidente uscente, il socialista Diouf, alle elezioni appena tenutesi è stato lo stesso Wade a essere spodestato dal neo-presidente Macky Sall.
A qualche mese dalle elezioni presidenziali, Wade aveva costruito un sistema opaco di gestione del processo elettorale, che comprendeva persino un ministero incaricato dell’organizzazione delle elezioni. Una scelta che rompeva con le pratiche in materia elettorale ormai consolidatesi nell'Africa dell’Ovest, che assegnano un ruolo centrale, nella gestione del processo elettorale, a una commissione indipendente, autonoma rispetto all’esecutivo. Il presidente senagalese ha ripartito le competenze in materia elettorale tra il ministero dell’Interno, il neonato dicastero per le Elezioni e la Commissione elettorale nazionale autonoma (Cena), ma, contrariamente alle aspettative, queste hanno dato prova di imparzialità e competenza, tonificando così il sistema democratico.
La sconfitta di Wade segna inoltre, per alcuni versi, una rottura rispetto alle strutture politiche che hanno accompagnato il momento post-coloniale senegalese. A Dakar il sistema politico si basava su due pilastri: l’alleanza tra il principe, che incarna il potere politico, e il marabout, che rappresenta le confraternite sufiste, e un sistema partitico bipolare che contrapponeva il partito liberale, il Pds, al Partito socialista. Le confraternite sufiste costituiscono l’ossatura dell’islam di popolo in Senegal. Si tratta di comunità religiose caratterizzate da un rapporto fideistico e carismatico tra i discepoli e il capo, il marabout. Le confraternite innervano la società senegalese e negli ultimi decenni si sono rivelate straordinari bacini elettorali, in grado di influenzare le scelte degli elettori attraverso il ndiguel, un ordine di voto dato dal capo religioso ai suoi discepoli. Per la vittoria di Wade, nel 2000,è stato decisivo il sostegno della confraternita Mouride, una fra le più influenti del Paese, il cui potere si fonda sulle presunte capacità taumaturgiche dei propri capi. Le Président talibé, il presidente discepolo, è il modo in cui Wade si è sempre definito. Sebbene il califfo generale dei Mourides non abbia dato alcuna indicazione di voto per le elezioni presidenziali, la campagna di Wade si è appoggiata sul sostegno della propria confraternita. Contrariamente al passato, però, non sono stati ottenuti gli esiti sperati e ciò è forse il segno di una diluizione del potere di condizionamento e orientamento esercitato dalle confraternite sulla società senegalese.
Anche il sistema dei partiti appare trasformato dal risultato delle presidenziali. L’impianto partitico tradizionale, costruitosi a partire dall’indipendenza, si fondava sul confronto tra il partito di Wade, il Pds, figlio della lotta per il multipartitismo, e l’antico partito unico, erede del padre fondatore del Senegal, Léopold Sédar Senghor. Questo bipartitismo imperfetto, che negli ultimi trent’anni era riuscito ad assicurare al Senegal un’evoluzione democratica, esce destabilizzato dalla vittoria di Macky Sall.
Sall è infatti un ex esponente del Pds: già delfino di Wade, è entrato in conflitto con questi, per ragioni personali, nel 2008. La sua affermazione plebiscitaria mette a rischio l’esistenza stessa del Partito socialista, che per la prima volta nella storia non è riuscito a qualificare il suo candidato per il secondo turno delle presidenziali. Candidato proveniente dalla maggioranza uscente ma sostenuto dall’opposizione, esponente liberale votato dai socialisti, Sall potrebbe voler giocare su questa duplicità e cercare di saturare lo spazio politico creando una nuova maggioranza vorace e ipertrofica, che integrerebbe al suo interno sia i socialisti sia i liberali. La dialettica decennale tra opposizione e maggioranza rischierebbe così di essere cancellata facendo perdere vitalità alla democrazia senegalese.
C’è tuttavia un altro spettro che incombe su Dakar. Durante la campagna elettorale, il presidente uscente ha agitato il demone dell’etnicizzazione del Paese, accusando Sall di rappresentare unicamente gli interessi della sua etnia, i Toucouleur. In questo modo, Wade cercava di riprodurre la stessa strategia utilizzata vittoriosamente dall’attuale presidente della vicina Guinea Conakry, Alpha Condé, durante l’elezione presidenziale del novembre 2010: comunitarizzare il voto, costruire un’union sacrée contro l’etnia dello sfidante (l’etnia Peul a Conakry, quella Toucouleur a Dakar), capace di federare in chiave negativa e oppositiva tutto il resto dell’elettorato. A differenza del caso guineano, in Senegal il tentativo di costruire una federazione etnica non ha pagato. Il seme della discordia etnica è stato tuttavia gettato, inquinando il dibattito politico.
Nonostante queste fibrillazioni, la vittoria di Sall apre la via a un consolidamento della democrazia in Senegal. La durata di questo percorso è tuttavia difficile da valutare ed è opportuno essere molto prudenti. Volatilità è la parola d’ordine, il concetto passepartout impiegato nelle organizzazioni internazionali per spiegare l’Africa dell’Ovest. Qui tutto può cambiare repentinamente, violentemente e radicalmente. Per Dakar, la via della stabilità è ancora lunga.
Riproduzione riservata