Era il Convegno ecclesiale di Loreto del 1985 quando il vescovo Camillo Ruini si preparava a un’ascesa senza precedenti per la Chiesa cattolica italiana: la nomina a segretario della Conferenza episcopale è dell’anno successivo, quella a presidente della stessa Conferenza è del 1991, ma la linea di papa Giovanni Paolo II per una Chiesa particolare (in tutti i sensi) come quella italiana era chiara da tempo: nessuna passività di fronte a un processo di secolarizzazione senza freni, ma una «nuova evangelizzazione» che rafforzasse e non smettesse di dare visibilità al cattolicesimo messo a dura prova da un fenomeno che molti, anche cattolici, ritenevano irreversibile.
A distanza di quasi quarant’anni da quell’evento, mentre il tempo ha dato ragione a chi riteneva che la secolarizzazione non andasse avversata ma vissuta, un nuovo convenire che è il sinodo della Chiesa universale con la sua declinazione anche nazionale coincide con la nomina del nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana nella persona dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Maria Zuppi. La notizia è stata resa nota il 24 maggio, poco dopo che i vescovi avevano consegnato al papa una terna di nomi votata durante l’assemblea generale.
A meritare una prima riflessione è proprio la procedura. I vescovi italiani sono i soli a non eleggere direttamente il proprio presidente, la cui nomina è riservata al papa per il suo singolare rapporto con l’Italia. Francesco ha tentato di superare questa usanza, ma non è riuscito a ottenere di più che il compromesso di un voto per individuare una terna di nomi da sottoporgli (oltre a Zuppi, i candidati individuati dai vescovi erano l’arcivescovo e cardinale di Siena, Augusto Paolo Lojudice, e il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti). Per questo risalta il cambio di prospettiva che il pontefice condivideva con il «Corriere della Sera» nell’intervista del 3 maggio scorso: «Adesso la prossima assemblea dovrà scegliere il nuovo presidente della Cei, io cerco di trovarne uno che voglia fare un bel cambiamento. Preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole». Con ciò egli indirizzava il voto dei candidati alla presidenza e sottolineava la consonanza istituzionale e teologica tra sé e alcuni esponenti della Chiesa italiana, il che ha provocato dei malumori in occasione dell’incontro con i vescovi in apertura di assemblea.
La nuova presidenza ha una chiave di lettura "politica" nel suo configurarsi come un riconoscimento al cattolicesimo italiano più impegnato a livello sociale
Quello di Matteo Zuppi è un nome che risponde all’orizzonte di Francesco. La sua designazione a presidente dei vescovi è una conferma dell’archiviazione del ruinismo come sistema normativo e al tempo stesso un certo suo esito, sia rispetto al modo con cui i successori di Camillo Ruini hanno gestito l’eredità dello stesso, compreso il presidente uscente, l’ormai ottantenne vescovo emerito di Perugia, Gualtiero Bassetti; sia per la vitalità e l’originalità di quella Chiesa dei movimenti che nasce proprio negli anni Ottanta. La nuova presidenza ha qui la sua chiave di lettura «politica», nel suo configurarsi come un riconoscimento al cattolicesimo italiano più impegnato a livello sociale, rappresentato nello specifico dalla Comunità di sant’Egidio. La nomina di Zuppi investe su un tipo nuovo di presenza e di profilo episcopale: una Cei meno militante ma non meno engagé, da un lato; profili meno inclini a «progetti culturali» e più testimoniali, dall’altro (emblematica in tal senso è l’omelia di Zuppi per i funerali dell’ex presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il 14 gennaio scorso).
La presidenza Zuppi può già contare su apprezzamenti trasversali giunti da mondi diversi, incluso quello politico. Fa pensare che Michele Serra abbia scritto che «bisognerà pure che la sinistra laica si domandi dove sono gli Zuppi senza tonaca, gli atei illuminati non da Dio, ma dal sentimento di fratellanza, i socialisti davvero convinti che “socialismo o barbarie” non sia uno slogan di ieri, ma una necessità futura». In altre parole, secondo Serra, «gli applausi della sinistra per la nomina di Zuppi contengono, insieme alla contentezza, un senso di frustrazione per non poter procedere a nomine, e azioni politiche, e progetti di vita, ugualmente radicali». E ciò per forza di cose costituisce l’anticipazione di un volto pubblico della Cei differente, a proprio agio con i media, che il neopresidente potrà sfruttare per la riabilitazione della Conferenza episcopale non solo ad extra ma anche presso la base ecclesiale, sia pure in un curioso mantenimento di un dato in comune con la Cei di Ruini ossia l’assenza di mediazioni (per quanto resti da vedere chi sarà il prossimo segretario generale).
Ha un’importanza altrettanto trasversale che l’attuale vescovo di Bologna sia tra i più sensibili ai poveri, in un Paese dove la povertà è spesso rimossa e colpevolizzata, e all’inclusione delle persone Lgbt, proprio mentre il confronto con esse viene svolto ai margini sia della società che della Chiesa, soprattutto nel nostro Paese. I toni pastorali del neopresidente della Cei potranno avere per questo un effetto rigenerante sul piano dell’atteggiamento che le comunità cattoliche riservano agli esclusi, ma occorrerà capire in che modo tale disposizione si relazionerà con la dimensione istituzionale e strutturale della Chiesa. Quella di Zuppi è la nomina di un uomo carismatico, da cui non ci si aspetta una forma di governo autoritaria, ma il cui giudizio non potrà non tenere conto delle scelte importanti sul lungo e breve periodo, come la riduzione del numero delle diocesi, la conduzione del processo sinodale (quello nazionale si protrarrà fino al 2025), l’attuazione delle direttive di papa Francesco sull’accesso delle donne ai ministeri istituiti (lettorato, accolitato, catechesi) e la più generale gestione dei casi di abusi sessuali commessi in territorio italiano (ben oltre l’annunciato rapporto sugli ultimi vent’anni, da valutare).
I toni del neopresidente potranno avere un effetto rigenerante sul piano dell’atteggiamento che le comunità cattoliche riservano agli esclusi, ma occorrerà capire in che modo tale disposizione si relazionerà con la dimensione istituzionale
Un tema meno affiorato ma fondamentale e in realtà trasversale alle scelte più note e immediate è poi la stesura di una Ratio nationalis che concerne la formazione dei futuri preti. Si tratta di un passaggio obbligato dopo la pubblicazione, da parte del Vaticano, della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis del 2016 che aggiornava le versioni del 1970 e del 1985. Il nuovo testo condiviso dai vescovi italiani dovrà vedere la luce prima di maggio 2023, ma il comunicato finale dell’assemblea generale che si è conclusa il 27 maggio scorso ha già evidenziato alcuni elementi problematici che solo in parte discendono dal documento del 2016. Emerge infatti che «per reagire all’inverno vocazionale» sia necessario «reinvestire sulla pastorale giovanile», in una lettura solo reclutativa che non sembra considerare l’opportunità di un maggiore scambio tra educazione e cultura non orientato in senso esclusivamente ministeriale. L’importanza del tema è per l’appunto trasversale se si guarda al sinodo sulla sinodalità in corso come a una consultazione che dovrà esprimersi anche sulla delicata questione del ministero nella Chiesa e all’indagine sugli abusi commessi nel nostro Paese come a un’assunzione di responsabilità che dovrà includere anche le strutture di formazione ecclesiale.
L’era Zuppi inizia in modo simile a come era iniziata la sua esperienza episcopale a Bologna. In un’intervista rilasciata a Giovanni Turbanti per la nostra rivista, il neoeletto arcivescovo ricordava come una persona esterna alla Chiesa bolognese gli avesse fatto notare che al momento della sua accoglienza in piazza Maggiore «c’era molta gioia». La reazione generale alla notizia della sua nomina a presidente della Cei potrebbe dirsi la stessa, il che dice qualcosa della Chiesa italiana e delle sue differenze rispetto ad altre Chiese europee e non europee. Ma il presule parlava anche di tentazione della minoranza e richiamava la «concretezza dei dati» delle vocazioni: in un Paese a tradizione quasi mono-confessionale e ancora a digiuno di dati non meno importanti come quelli sugli abusi, è indubbio che la presidenza Zuppi abbia già molto da dimostrare.
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