Il dibattito è aperto: in che modo e in che misura la caotica situazione politica di queste settimane a Londra deriva dalla scelta di uscire dall’Unione europea nel famigerato referendum del 2016? Quanto invece può dipendere dal modo in cui il Paese ha attuato la Brexit? Con un approccio hard che promette di cancellare per principio leggi, leggine e regolamenti, 2.300 in tutto, che ancora risiedono nella legislazione nazionale. Non dipenderà piuttosto dalla cattiveria degli europei continentali, furiosi con gli inglesi per aver tradito la grande visione europea?

Il “Financial Times” ha realizzato un podcast in cui elenca tutti i danni economici provocati dalla Brexit, che include alcune interviste a vittime nel mondo degli affari. Uno degli uomini più ricchi del Paese, Guy Hands, proprietario di una nota azienda di private equity, intervistato dalla Bbc, ha dichiarato che il modo di uscire dalla Ue è stato dannoso come più non avrebbe potuto essere. Tante che, a suo dire, se non si metterà in moto un movimento per un grande sforzo di rapprochment, ci saranno nuove rovine e nuova miseria.

Da Oxford, Timothy Garton Ash ha sentenziato che con i disastri economici e sociali che attraversano il Paese e sono sotto gli occhi di tutti è ora di dichiarare morto per sempre il Brexitismo, il dogma delle destra Tory e dei fanatici à la Farage che ha sostenuto che grazie all’uscita dall’Unione una nuova stagione di libertà economica e prosperità si sarebbe aperta per il Paese, ridefinendo la visione johnsoniana di "Global Britain" in splendidi termini economici, con lo stupore del mondo.

È ora di dichiarare morto per sempre il dogma delle destra Tory e dei fanatici à la Farage che ha sostenuto che grazie all’uscita dall’Unione una nuova stagione di libertà economica e prosperità si sarebbe aperta per il Paese

In realtà, come ha notato Clare Foges, se ne 2016 il Pil della Gran Bretagna equivaleva al 90% di quello tedesco, ora questo valore è sceso al 70%. La grande promessa di nuovi e mirabolanti trattati commerciali degli inglesi in giro per il mondo si è rivelata un’illusione. Quello con l’India si è arenato quando gli indiani hanno chiesto più visti per i loro emigrati. L’accordo che avrebbe dovuto essere il più grandioso della serie, quello con gli Stati Uniti, non è mai decollato, né sotto Trump né sotto Biden. D’altronde, con un’America sempre più protezionista, era inevitabile, ma vai a spiegarlo alla classe dirigente che ha inventato l’idea del libero commercio nell’Ottocento, trasformandolo in ragion d’essere in tutte le stagioni della storia contemporanea, e che ormai ci si aggrappa non più tanto considerandola una ideologia o un dogma quanto una sorta di superstizione. Se Margaret Thatcher è stata la leader che ha imposto il concetto di mercato unico europeo sulla Comunità economica degli anni Ottanta, i suoi successori Tory danno l’impressione di volere optare per un "piuttosto la morte" pur di non accettare qualsiasi forma di ravvicinamento.

In realtà, le tante forme di miseria che caratterizzano la scena pubblica – nella sfera del Welfare e in quella privata – toccando da vicino le famiglie meno agiate, non derivano in alcun modo da Brexit. Erano ben visibili già prima del 2016 e si sono aggravate negli anni successivi, soprattutto nella fase – non ancora conclusa – della pandemia. Si pensi ad esempio ai 300 mila posti persi nelle strutture sanitarie, di cui oltre la metà solo nel settore delle case di riposo. Oppure a chi fa fatica a pagare le bollette di luce e gas ogni mese (si stima si tratti di quasi le metà della popolazione); o al 90% delle scuole secondarie che, in assenza di altre iniezioni di fondi (si tratta di un settore ampiamente privatizzato, ma pur sempre sotto il controllo dello Stato) hanno previsto la bancarotta l’anno prossimo. E ancora: alla rovinosa privatizzazione delle ferrovie; ai tagli alle forze dell’ordine e al sistema giudiziario (con certe categorie di magistrati scese in sciopero per la prima volta nella storia); ai guai degli enti locali sempre più sopraffatti dalla miseria crescente tra i loro cittadini; alle crisi economiche delle università, con l’imbarazzante dipendenza dal flusso finanziario che arriva loro da studenti cinesi, arabi, indiani.

Nel cosiddetto "Global Britain" i fondi del Foreign Office dovevano essere ridotti del 5% in tre anni già prima della crisi. L’attuale ministro del Tesoro, Hunt, ha parlato di decisioni da prendere attorno alle finanze pubbliche che "fanno venire le lacrime agli occhi". Sarà per questo che non si è presentato come possibile successore di Truss lasciando campo aperto ad altri.

Tralasciando il grande dibattito tra esperti sulle debolezze storiche dell’economia inglese, che risale almeno agli anni Cinquanta del secolo scorso, l’attuale fase di agonia ha le sue origini nella scelta dell’”austerità” imposta all’economia nazionale da Cameron e dal suo ministro del Tesoro Osborne come risposta alla crisi finanziaria globale del 2008 (ma sempre attribuita dai Tories, adesso come allora, in assoluta malafede, ai presunti eccessi di spese per il Welfare a opera del precedente governo laburista). In realtà l’”austerità” praticata da Cameron e Osborne era frutto di una precisa scelta ideologica, all’insegna di "più mercato, meno Stato". Il sogno di uno Stato minimalista, responsabile soltanto delle minime protezioni territoriali e sociali, ha accompagnato ormai due generazioni di Tories a partire da Margaret Thatcher, e nel 2020 ha profondamente condizionato le prime fasi della risposta governativa al Covid con risultati disastrosi, fino a quando non è prevalso il buon senso. Sono le scelte ideologiche dei governi conservatori che hanno dettato la privatizzazione di tanti settori della vita economica del Paese, inclusi gas, energia elettrica, acqua, telefoni, ferrovie, aeroporti e porti, scuole, servizi sociali, poste. Il pregiudizio a favore del libero mercato in tutto ha visto gran parte di queste risorse passare in mani straniere senza che Londra alzasse un dito (anche perché a beneficiare dell’influsso di cassa generato da queste operazioni sono stati molto spesso sostenitori e sponsor del partito conservatore). Così la produttività economica nazionale è stagnante da anni e le diseguaglianze di reddito e di standard di vita, tra zone geografiche e classi sociali, in crescita costante.

Il sogno di uno Stato minimalista, responsabile soltanto delle minime protezioni territoriali e sociali, che ha accompagnato ormai due generazioni di Tories, si è dimostrato fallimentare

Come nel resto del mondo occidentale, invece di diminuire, le responsabilità dello Stato stanno crescendo. Dopo il Covid abbiamo la crisi dei prezzi del gas e dell’elettricità e un’inflazione a due cifre. Tra chi stanno organizzando scioperi nei prossimi mesi si vedono infermieri e altri lavoratori del settore sanitario, insegnanti, macchinisti delle ferrovie, postini, persino docenti universitari. Sette milioni di britannici sono in attesa di interventi chirurgici negli ospedali; un quarto delle strutture ospedaliere e sanitarie ha creato depositi di prodotti alimentari per i propri infermieri. Sale fino al cuore della classe media la proporzione di famiglie che non riesce a pagare cibo, riscaldamento e un mutuo per la propria abitazione.

Le incredibili acrobazie personali e politiche che hanno accompagnato la lunga ascesa e la caduta istantanea di Liz Truss hanno screditato, oltre alla protagonista del premierato più breve di tutta la storia britannica, il suo partito di appartenenza e – dopo le convulsioni causate da Boris Johnson – l’intero sistema di governo di Whitehall. Questa straordinaria struttura, una volta capace di tenere insieme un impero che copriva un quarto del mondo, oggigiorno non è in grado di gestire il proprio cortile di casa. Così gli indipendentisti di Galles e Scozia gongolano; gli irlandesi di Dublino guardano tutto con il solito mix di schadenfreude e ironia, trovando confermate tante delle loro peggiori previsioni sulle conseguenze della Brexit.

Ora siamo a una fase nuova, o almeno dovremmo. E va senz’altro a favore della cultura politica britannica l’aver designato un uomo hindu di 42 anni, di origini piuttosto convenzionali, come capo di governo. Tuttavia basta poco per accorgersi che Rishi Sunak ha frequentato una delle scuole private più esclusive, ha seguito lo stesso corso di laurea – politics, philosophy and economics – a Oxford di tutti i suoi sciagurati predecessori, da Tony Blair in poi (Brown è l’unica eccezione), e che, come tutti quelli coloro vogliono avere successo nel Partito conservatore, è ricchissimo. Ma nessuno osa fare domande sulle origini di tanta ricchezza.

D’ora in poi Sunak avrà come sostegno morale e psicologico solo quel poco di capitale politico che è sopravvissuto al suo partito dopo questi anni disastrosi. Gli sarà sufficiente per restare in carica sino alle elezioni politiche del 2025?