Era un’omelia, d’accordo. Non un discorso in senso stretto. Tuttavia, le parole pronunciate per la cerimonia di inaugurazione del pontificato da parte di papa Francesco hanno rappresentato, e non casualmente, una sorta di “programma”, almeno nello stile e nell’approccio. Parole che disegnano una visione.
Parole che, anche se talune a braccio – o forse proprio per quel motivo –, non possono essere considerate come parole di “mero” commento del Vangelo scelto.
Tra di esse, una in particolare mi ha colpito. Una parola (un verbo) che è stata ripetuta più volte: “custodire”.
Mi ha colpito non soltanto perché, come un martello che batte sull’incudine, questa parola ha risuonato per ben 28 volte in quel teatro a cielo aperto che è piazza San Pietro, quanto perché questa parola, come molte del lessico italiano, è polisemica e dunque “pericolosamente” aperta a interpretazioni multiple. Interpretazioni che, in una omelia di una cerimonia di inaugurazione di un pontificato – che è anche quindi un discorso programmatico, di fronte ai cosiddetti grandi della terra e in mondovisione –, ogni ghost writer di qualità probabilmente avrebbe sconsigliato, in quanto, appunto, ambigua (a meno che non fosse quello il vero intento, ma a cogliere il senso generale questa non parrebbe l’intenzione).
Così, se per l’elenco dei temi e delle cose di cui bisogna di prendersi cura (da custodire, appunto) rinvio al testo di Papa Francesco (qui), lasciando invece al futuro la capacità di misurare se le parole pronunciate in questa omelia saranno davvero anticipatrici dei gesti concreti di questo pontificato, penso che possa essere utile un piccolo ragionamento sul “custodire”, proprio perché parrebbe key-word non casuale.
Può essere utile partire da una certezza: il vocabolario. In merito, quello Treccani attribuisce al custodire [dal lat. custodire, der. di custos -odis «custode»] tre significati: il preservare-conservare in modo vigile e consapevole; il mantenere-nutrire; il proteggere se stessi, inteso in senso riflessivo. Tre significati che, riassuntivamente, potrebbero essere dentro una generale locuzione: quella del “prendersi cura”. Un intendere lessicale che in genere finisce per essere un modo diverso per scegliere un’idea di preservazione dell’esistente, manutenendolo.
Il prendersi cura dunque come manutenzione dell’esistente, creato o spirituale che sia. E, in fondo, a leggere attentamente il testo questo significato è presente: anzi, quanti commentatori hanno attribuito forza e proiettività alla parola “creato”, incisivamente pure ricorrente in quell’omelia.
Tuttavia, credo che il senso vero del custodire che ci è stato proposto non sia tanto nell’idea del manutenere, quanto piuttosto sia in quello del discernere cosa prendere e cosa lasciare, sapendo cosa è essenziale. Insomma, abbandonando e cambiando. Per cui, senza dover ritornare a note metafore di bisacce proprie di salite ventose su monti ripidi, credo che il senso del custodire che ci è stato proposto sia quello del cambiare. Della necessità che tutti – la Chiesa in testa – debba cambiare. Custodendo, cioè scegliendo. O meglio sapendo scegliere, interrogandosi.
D’altronde, il custodire non è in fondo l’interrogarsi sull’importanza di cosa è davvero importante? Che si tratti di noi stessi (il custodirsi) o che si tratti di altri (il proteggere e l’accudire)?
Di sicuro però c’è un fatto: che il custodire non è esclusivamente il manutere. Eppure, non di rado, nella nostra società i due verbi divengono sinonimi. Un misunderstanding che non pochi danni – basta guardarsi attorno… – ha fatto al nostro Paese e alla sua capacità di adeguarsi al tempo veloce e intenso che stiamo vivendo. E quanta manutenzione spacciata falsamente come custodire abbiamo di fronte. Quanto invano custodire di cose vane occupa lo spazio del nostro tempo.
Ecco perché, ascoltando quel discorso e poi leggendolo più volte, ho apprezzato la scelta dell’uso del verbo custodire. Perché è un altro modo – forse desueto ma invero assai efficace e penetrante – per dire che è tempo che la Chiesa e le persone tutte – credenti o meno (lo ha detto sempre il papa in un discorso successivo) – imparino a scegliere. Questa è la sfida del nostro tempo che lui vede. E lo dice con la sapienza leggera di un uomo di profonda cultura che conosce la forza e la capacità di penetrazione (anche in modo inconsapevole nell’inconscio di ciascuno di noi) delle parole.
Non è poco. E, si licet, è una ouverture sulla scena del mondo da vero gesuita.
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