Le recente normativa in tema di risanamento e risoluzione della crisi degli enti creditizi costituisce senza dubbio l’ultimo tassello del processo di modificazione formale e sostanziale delle istituzioni della nostra economia. Dalle istituzioni di un’economia capitalistica caratterizzata dal preponderante ruolo dello Stato quale attore principale in alcuni mercati strategici e particolarmente sensibili si è passati, lentamente ma inesorabilmente, alle istituzioni di un’economia di mercato che vede il medesimo Stato dismettere i panni di attore per assumere quelli di mero controllore. Sicuramente imputabile alla crisi economica esplosa nel 2008, che ha reso necessarie iniezioni di ingenti dosi di denaro pubblico, la menzionata normativa esprime assai bene la logica sottostante ai provvedimenti di derivazione comunitaria in materia di governo dell’economia, anzitutto volti a limitare al minimo gli interventi diretti dell’autorità pubblica anche in un settore, come quello del credito, coperto dalla garanzia costituzionale.
Ancora una volta trova conferma l’assunto, di ispirazione notoriamente marxiana, che le istituzioni giuridiche seguono quelle economiche e non viceversa. Dal 2008 al 2013, anno al quale è datata l’ultima delle comunicazioni della Commissione europea in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, molto è cambiato con riguardo alle condizioni di ammissibilità dell’intervento pubblico ai fini del salvataggio bancario. Le maglie si sono ristrette attraverso una progressiva specificazione di principi, alcuni dei quali già genericamente menzionati nei primissimi provvedimenti in materia, nonché attraverso l’adozione di nuove regole procedurali che collocano il riconoscimento della legittimità dell’intervento pubblico all’esito della approvazione del piano di ristrutturazione dell’ente creditizio.
In questo nuovo quadro, che si presenta quale risultato della stratificazione di una serie di atti – le comunicazioni della Commissione, il regolamento europeo sul meccanismo unico di risoluzione n. 804 del 2014 e, da ultimo, la direttiva del 15 maggio 2014 n. 59 che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi – spicca un principio, anch’esso invero già presente in alcune comunicazioni antecedenti a quella del 2013, la cui portata tuttavia ai fini della ammissibilità dell’intervento pubblico viene ulteriormente specificata soltanto nel 2013: si tratta del principio di condivisione degli oneri.
Nel 2013 la Commissione senza mezzi termini afferma che «prima di concedere aiuti per la ristrutturazione a favore di una banca, gli Stati membri dovranno […] garantire che gli azionisti e i detentori di capitale subordinato di detta banca provvedano a fornire il necessario contributo, oppure a costituire il quadro giuridico necessario per ottenere tali contributi». Ciò, laddove le ragioni che giustificherebbero l’adozione di detto principio starebbero esattamente nella sua strumentalità a limitare le condotte c.dd. di moral hazard, ossia i comportamenti opportunistici di chi ha poteri gestori.
La ricetta elaborata per superare la crisi bancaria dall’Unione europea è dunque chiara: anzitutto internalizzazione dei costi per mezzo della riduzione, della conversione o dell’azzeramento prima delle azioni e poi delle obbligazioni subordinate; di quei titoli, in definitiva, che tradizionalmente vengono collocati nel c.d. capitale di rischio e nel cosiddetto, sia pure criticabilmente, quasi capitale. E nel rispetto del seguente, ulteriore, principio: che «i creditori subordinati non dovrebbero […] ricevere, in termini economici, meno di quanto sarebbe valso il loro strumento in caso di mancata concessione di aiuti di Stato».
Se il giuseconomista si interroga in prima istanza sulla efficienza delle regole, il giurista tradizionale non valuta soltanto in termini di efficienza ma, anche e anzitutto, in termini di giustizia. È, dunque, giusta la regola che prescrive un tale sacrificio? Ebbene, se si svolge un ragionamento squisitamente tecnico, si potrebbe, forse, anche concludere per la ragionevolezza di una tale soluzione. Gli azionisti investono nell’attività e partecipano totalmente al rischio di imprese. Vi partecipano, è vero, anche a prescindere dall’effettivo ricorrere di un potere di indirizzo. È pure vero, però, che il sacrificio dei loro interessi rispetto a quello dei creditori dell’impresa è bilanciato, nell’ipotesi in cui ai primi non facciano capo poteri gestori, dalla responsabilità limitata.
Quanto agli obbligazionisti subordinati, poi, la regola della responsabilità, che li vede postergati rispetto agli altri creditori dell’ente nel soddisfacimento delle loro ragioni, in effetti connota qualitativamente il titolo; ciò nel senso che proprio dalla menzionata regola dipende la sua redditività. Ragion per cui, sempre su di un piano squisitamente tecnico, il loro coinvolgimento nel salvataggio dell’impresa bancaria, che si traduca nell’azzeramento delle relative posizioni per assorbire le perdite, potrebbe anche trovare una sua giustificazione. Sempre che – ed è questa condizione imprescindibile ai fini della bontà del ragionamento – all’obbligazionista subordinato non sia riservato un trattamento deteriore rispetto a quello che gli sarebbe spettato in caso di messa in liquidazione dell’impresa.
Sul piano della disciplina dell’attività dell’impresa bancaria, al quale afferisce altresì il profilo della responsabilità per la medesima attività, il sacrificio degli obbligazionisti subordinati parrebbe insomma finanche rivelarsi tecnicamente coerente con l’essenza stessa dell’operazione di investimento le volte in cui, quale tassello di un procedimento più ampio diretto al risanamento della impresa bancaria, si riveli strumentale alla tutela delle altre categorie di investitori.
Certo, l’ingiustizia della soluzione si manifesta con tutta la sua forza ove si ponga mente alla tipologia di clientela cui il prodotto viene assai spesso venduto: nel caso delle quattro banche di recente salvate, a clienti il cui profilo di rischio avrebbe dovuto condurre a una valutazione di inadeguatezza dell’operazione. In questo caso, tuttavia, il piano di rilevanza è anzitutto quello della responsabilità contrattuale.
Le soluzioni tecniche, è bene ricordarlo, scontano presupposti concettuali dati. Quelli a valle delle regole di cui si sta discutendo sono tutti di derivazione comunitaria. Più o meno condivisibili, da essi sembra davvero complicato potere prescindere. Sulla base di detti presupposti, la tutela del risparmio oggi – a torto o a ragione – trova attuazione attraverso l’adozione di soluzioni frutto di un differente bilanciamento dei diversi principi in concorso, data la maggiore forza riconosciuta a quelli di tutela della concorrenza e di sostenibilità finanziaria dell’intervento pubblico.
È questo il naturale corollario del mutamento del volto del sistema bancario. La nuova disciplina in materia di risanamento e di risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento costituisce il riflesso dei mutamenti degli orientamenti della Commissione europea in materia di aiuti di Stato. Il processo di revisione è iniziato nel 2013; dal 2016 il nuovo regime è pienamente operante. Si può discutere della tempistica. Ciò nondimeno, l’approdo sembra inscriversi esattamente nel più generale disegno delle strutture del mercato dell’Unione europea. Al quale anche il mercato del credito, nonostante il ruolo strategico e sensibile che gli è proprio, non sembra fare eccezione.
Francesco Galgano nel cosiddetto "periodo rosso" scriveva le sue Istituzioni dell’economia capitalistica analizzando un contesto socio-economico molto diverso da quello attuale. Joseph Stiglitz scrive il suo Prezzo della diseguaglianza all’indomani della crisi del 2008, ponendo sul banco degli imputati i mercati liberalizzati e globalizzati. Due analisi differenti – l’una spiccatamente giuridica, l’altra anzitutto economica – di realtà assai distanti e ciò nondimeno accomunate dalla medesima constatazione: che le istituzioni giuridiche troppo spesso seguono quelle economiche e che le soluzioni adottate in punto di bilanciamento di interessi in conflitto ancora più spesso sono serventi a logiche di potere date.
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