«Il Cristianesimo, che ha reso tutti gli uomini uguali davanti a Dio, non avrà difficoltà a trovare i cittadini uguali davanti alla legge». [A. de Tocqueville, La democrazia in America (1835)]

«Questo progetto [l’Occidente] potrà durare solo se riuscirà a conquistarsi uno spazio tra le nostre emozioni». [R. Scruton, La cultura ha importanza (2007)]

 

Tenutosi in disparte nella prima fase della Rivoluzione francese, nel dicembre 1792 Malesherbes, uomo dei Lumi e illustre magistrato, scrive al presidente della Convenzione, Bertrand Barère, montagnardo intransigente, per offrirsi di difendere Luigi XVI, detenuto in attesa di processo. Questa sua iniziativa comporta grande coraggio. È vero: i giacobini ricordano ancora i titoli di merito del «virtuoso Malesherbes», nobile di orientamento liberale, patrocinatore dei Parlamenti e sostenitore della riforma in senso costituzionale della monarchia, protettore di Diderot e D’Alembert ai tempi dell’Encyclopedie. Tuttavia i precedenti di scrupoloso servitore della Corona, ancorché critico del regime assolutistico, avrebbero dovuto suggerire maggiore prudenza all’anziano uomo di Stato, se questi, per sua stessa ammissione, non «disprezz[asse] ormai la vita» tanto da disinteressarsi di perderla (è ghigliottinato nell’aprile 1794).

Alla data in cui scrive a Barère, Malesherbes ha tratto da tempo le conclusioni sul processo rivoluzionario, il cui estremismo aborre; e sviluppato amare riflessioni sul fallimento dei moderati - monarchici costituzionali, prima, “foglianti” e girondini poi. La disfatta del progetto riformista è per lui imputabile in primo luogo alle ambiguità tenute dal partito dei monarchiens in merito alla religione e alla Chiesa e all’adozione di misure patentemente illiberali che, tra 1789 e 1790, violano una prima volta le norme del rispetto della proprietà e della persona, fanno leva sull’anticlericalismo “militante” parigino (e di poche altre regioni: il Midi, il Sud Ovest) e aprono la strada al Terrore. Le misure antireligiose prese a partire dall’ottobre 1789 costituiscono retrospettivamente, per Malesherbes, non la prova di un superiore cinismo o di scaltrezza da parte monarchico-costituzionale, ma un deprecabile atto di slealtà e un suicidio politico.

Sulla scorta di considerazioni di Burke e Tocqueville, gli storici di orientamento non pregiudizialmente filogiacobino hanno spesso osservato che la Chiesa francese, nell’ultimo periodo dell’Ancien Régime, era ben lungi dal costituire un territorio di privilegio, crapula e licenziosità. Al contrario. Se spesso il demanio ecclesiastico era amministrato con scrupolo pari, se non superiore, al feudo “fisiocratico”, il clero secolare, nelle figure del curato di campagna o del sacerdote dei quartieri meno abbienti delle città, era bene in grado di comprendere le privazioni e le rinunce cui erano costretti i ceti minori, tanto da poterli egregiamente rappresentare. Gli Stati Generali prima e la Convenzione poi offrono ampia esemplificazione di un clero riformista e “liberale” schierato con il Terzo Stato - il cui “manifesto”, è noto, è redatto da un abate, Emmanuel-Joseph Sieyès.

La memoria delle stragi del clero “refrattario” o di semplici credenti compiute all’insegna del progetto di “decristianizzazione” rivoluzionario non è diffusa come dovrebbe nella coscienza europea moderna, al pari, ad esempio, della memoria della Shoah e del Gulag

Preparato dall’anticlericalismo settecentesco, che non distingue tra Cristo e Chiesa e riconosce nell’esperienza religiosa solo “fanatismo” o “superstizione”, l’anticristianesimo rivoluzionario è per così dire l’“elefante nella stanza” della Rivoluzione francese. Fatta eccezione per la storiografia in lingua inglese, che si è molto spesa in proposito nei decenni recenti, la memoria delle stragi del clero «refrattario» o di semplici credenti (stragi di marca di volta in volta maratista, giacobina, brissottina o hébertista) compiute a Parigi, Nantes, Marsiglia, Lione e altrove all’insegna del progetto di “decristianizzazione” – progetto che, inviso al solo Robespierre, a partire dal 1792 assume tratti genocidari con le esecuzioni di massa, gli affondamenti di barconi carichi di donne e uomini legati nudi o i primi studi sperimentali sull’efficacia di gas e veleni – non è a mio avviso diffusa così come pure dovrebbe nella coscienza europea moderna, al pari, ad esempio, della memoria della Shoah e del Gulag. Una simile rimozione fa sì che possa sembrare facile, o addirittura ovvio, richiamarsi oggi, da parte di questo o quello schieramento, alla Rivoluzione francese come a un’“origine” senza curarsi di distinguere tra moderazione e Terrore: dimenticando che solo il rifiuto della menzogna e della sopraffazione - o, in termini più concreti, l’immediata avversione per una qualsiasi ideologia della tabula rasa; per l’estremismo dottrinario; per la costruzione razziale o sociologica o sessuale dell’Altro e del “nemico” - può costituire oggi criterio attendibile per la creazione di un’opinione pubblica europea “progressista” e “liberale” (rimando qui, per le implicazioni di lungo periodo del Terrore e le continuità tra estremismo rivoluzionario francese e bolscevismo, a François Furet, Penser la Révolution française, saggio del 1978 purtroppo non tradotto in italiano. Michael Walzer si è di recente soffermato sul problema di una sinistra dottrinaria qui. Riferimento polemico immediato sono talune prese di posizione occidentali a favore di Hamas: le osservazioni di Walzer meritano però di essere considerate in termini più generali e profilate su uno sfondo storico-culturale).

Kolbe, Hillesum, Bonhoeffer, Edith Stein: solo alcuni nomi, questi, tra i molti che potrei fare di coloro che una parte consistente dell’opinione pubblica europea, credente o meno, riconosce de facto come padri costituenti, compulsandone ammirata le opere e onorandone la biografia. Nessuno, tra quanti ho appena citato, muove dalla tradizione illuministica - né d’altra parte, si inscrive in una tradizione “reazionaria”. Il culto della ragione onnisciente, vociferante e autogiustificata è stato oggetto di contestazioni molteplici, da destra e da sinistra, nel corso del Novecento, ma le smentite più autorevoli sono giunte dalla storia. Non un crepuscolare riferimento alle “radici cristiane”, sommessamente volto all’indietro, ma il senso di una “comunità di destino” e una potente immaginazione di futuro. Non la fede di taluni, ma il sacrificio di molti, al tempo della Rivoluzione francese o delle guerre napoleoniche di “liberazione”, in Unione Sovietica e nei Lager nazisti, avrebbe dovuto indurre a ricordare il cristianesimo nel preambolo della Costituzione europea del 2004, come pegno di dignità, libertà e fermezza individuale; consapevoli che l’eredità culturale giudaico-cristiana contribuisce in misura decisiva a consolidare quei principi personalistici e solidaristici che sono alla base del progetto europeo di «società aperta». Non lo si è fatto. Si è scelto così di rendere omaggio de facto - questo il senso delle critiche mosse da Roger Scruton al progetto comunitario - non a una società pluriconfessionale, vivificata dal senso comunitario e dalla conoscenza della propria storia, “laica” in senso proprio, che riconosce alle religioni il ruolo di attori legittimi entro una sfera pubblica partecipata; ma a un “laicismo” di tradizione attivamente antireligiosa e anticristiana, ben diverso e persino opposto alla “laicità”, che si è unito volentieri alla tirannide, in Europa se non in America, ha mosso ambiziose guerre ai costumi e disperso, pretendendo di sostituire, le istituzioni della carità.

Conoscere l’Esodo o il Vangelo di Giovanni pregiudica forse, nel bambino o nell’adolescente, l’acquisizione di una corretta capacità di giudicare, mentre così non accade, poniamo, se incensiamo la bellezza di Elena o ci addoloriamo per le sorti di Andromaca?

Non è qui questione di monoconfessionalismo e neppure quintessenzialmente di fede, se per “fede” intendiamo l’adesione individuale a dogmi e misteri sovrasensibili. Ma di un rapporto vivente con la storia e la cultura cristiana, dei cui testi canonici, in primis le Sacre Scritture, a scuola si sceglie di considerare poco o niente per effetto di politiche educative quantomeno singolari. Conoscere l’Esodo o il Vangelo di Giovanni, o addirittura onorare un’eredità culturale i cui documenti letterari, artistici e musicali sono tuttora componente essenziale di ciò che, in Occidente e non solo, stimiamo “alta cultura”, pregiudica forse, nel bambino o nell’adolescente, l’acquisizione di una corretta capacità di giudicare, mentre così non accade, poniamo, se incensiamo la bellezza di Elena o ci addoloriamo per le sorti di Andromaca? O magari ne ridurrà la fermezza interiore, una volta adulto? «Ignoro ciò che occorrerebbe fare, in Europa, per restituire al Cristianesimo l’energia della giovinezza», scrive Tocqueville nella prima parte della Democrazia in America, apparsa nel 1835. «Dio solo lo potrebbe. Ma almeno dipende dagli uomini lasciare alla fede l’uso di tutte le forza ch’essa ancora conserva. È il dispotismo che può fare a meno della fede, non la libertà: la religione è molto più necessaria nella repubblica… che nella monarchia, e ancor più necessaria nelle repubbliche democratiche che in tutte le altre».

Conosciamo il pensiero di Tocqueville sulle rivoluzioni americana e francese: se in Europa, in Francia e altrove, per ragioni che sono insieme storiche e sociali, religione e politica si sono trovate a confrontarsi sanguinosamente, questo non è accaduto negli Stati Uniti, società ex origine multiconfessionale dove la religione modella severamente i costumi, educa all’osservanza delle leggi e dissuade i «patrioti» dal volgersi contro la devozione popolare. In altre parole: la religione giova qui alla Repubblica perché, mentre sprona i cittadini a prendersi cura della cosa pubblica, sperimentando incarichi di responsabilità in primo luogo nelle istituzioni locali, essa insiste su domini autonomi e “spirituali” (il clero americano, spiega Tocqueville, non prende parte alla vita politica; e quasi mai ha incarichi amministrativi). Il metodo comparativo di Tocqueville, da sempre oggetto di ammirazione per l’acutezza di cui dà prova, ha una premessa storica e storiografica insieme: alla data del saggio, il prestigio della Rivoluzione francese (il mito dell’“origine”) non si è ancora “istituzionalizzato” nell’opinione pubblica francese con la creazione di cattedre universitarie dedicate e altro - lo sarà solo in seguito, sotto la Terza Repubblica: quando si imporrà un apprezzamento acritico. Agli occhi di Tocqueville la brutalità è nient’altro che brutalità e la libertà di parola cosa ben diversa dal diritto alla blasfemia.

«Lo Stato liberale secolare vive di premesse che non è in grado di garantire… Sussist[e] solo se la libertà che concede ai suoi cittadini si regola dall’interno… [Ma] non è in grado di garantire forze di regolazione interna senza rinunciare al suo liberalismo». Così Böckenforde, nel 1976, formula il suo celebre “dilemma”. Senza particolare originalità teorica, se consideriamo come la grande letteratura russa del secondo Ottocento e, nei primi decenni del Novecento, le filosofie dell’esistenza, in Germania e in Russia, abbiano più volte richiamato l’attenzione sulla “crisi” dell’umanesimo laico; tuttavia con elegante chiarezza, a ricordare che senza «religione» non esiste «libertà» durevole (a Böckenforde fanno riferimento anche Habermas e Ratzinger in occasione dell’incontro sulla “società post-secolare” tenutosi a Monaco nel gennaio 2004). Lo «Stato liberale secolare», questa l’opinione di Böckenforde, risolve solo con difficoltà i problemi della coesione sociale e del deficit motivazionale; o non li risolve affatto, se eradicato da «premesse» non secolari che sono sue proprie.