Devono sempre morire dei bambini o delle bambine perché, almeno per alcune ore, le persone che scappano da guerre, fame, discriminazioni, catastrofi ambientali tornino a essere riconosciute come tali e non come categorie da temere, da allontanare, da rifiutare.

E devono morire in modo tragico – come l’ultima bambina morta di sete e di fame sotto il sole su un barcone troppo piccolo per tanta disperazione - perché per smuovere le emozioni non bastano le migliaia di morti, nel Mediterraneo o sulla rotta balcanica, che in questi anni hanno trasformato i flussi migratori in una sorta di olocausto senza nome. Perché a quelle ci siamo abituati e per questo, per questi casi, riusciamo a rifugiarci nella nostra indifferenza.

Se si decide di protestare lo si fa scegliendo di non occuparsi più della cosa pubblica, a partire dal non votare. Abbiamo dismesso la nostra capacità collettiva di opporci e di denunciare

In questa società dello spettacolo, dove tutto è rappresentazione e lettura in bianco e nero, in altre parole, serve qualcosa di particolarmente tragico per smuovere le emozioni, per cambiare la narrazione dei media, per fare tacere, almeno per un po’ di tempo la politica.

Una politica che su questo dramma collettivo, per posizioni o anche per mancanza di coraggio, ha responsabilità pesanti. Sia la politica della destra e dei sovranisti che quota la paura sul mercato del consenso elettorale, sia quella dei progressisti che, pur dicendo cose di senso e contrastando teoricamente le discriminazioni e il razzismo, poi firma senza problemi, in nome della nostra sicurezza, gli accordi con i macellai libici, spesso gli stessi che gestiscono il traffico di essere umani, in una sorta di paradosso istituzionale. Facendo finta di non vedere e di non sapere delle migliaia di corpi torturati e stuprati nei centri di contenzione libici e delle migliaia di persone sfruttate, costrette a prostituirsi o ricattate giocando sugli affetti più cari.

Neanche lo straordinario slancio di accoglienza che ha attraversato il nostro Paese, a livello di impegno sia civile sia istituzionale, nei confronti dei profughi ucraini (per altro sacrosanto e dovuto) è riuscito a scalfire, almeno sui grandi numeri, le percezioni e gli atteggiamenti di una società che appare sempre di più ipocrita e senza memoria. Incattivita e spaventata, e che per questo non più capace di ritrovare le strade di una convivenza giusta per tutte e tutti. Di ripristinare quella cultura dei diritti e della cura che negli anni passati aveva fatto dell'Italia uno dei Paesi più avanzati dal punto di vista della tutela e della promozione dei diritti.

Neanche lo straordinario slancio di accoglienza che ha attraversato il Paese è riuscito a scalfire, almeno sui grandi numeri, le percezioni e gli atteggiamenti di una società che appare sempre di più ipocrita e senza memoria

Sono bastati pochi giorni di campagna elettorale per ritornare a disumanizzare chi emigra per fuggire dalla morte o dalla povertà. Pochi giorni e sono tornate le proposte di blocchi navali, l’allarme per invasioni virtuali, la retorica della sicurezza. E, soprattutto, è tornata a prevalere l’indifferenza diffusa di gran parte delle persone che di fronte a tutto questo girano la testa dall’altra parte.

Certo, l’allargarsi a dismisura delle povertà e delle disuguaglianze (negli ultimi due anni in Italia i 50 più ricchi del Paese hanno visto aumentare le loro ricchezze di circa 70 miliardi, mentre l’Istat ci dice che sempre negli ultimi due anni sono aumentate di un milione le persone in povertà assoluta) ha alimentato le dinamiche di conflitto tra ultimi, penultimi e vulnerabili.

Certo, quando le persone hanno la sensazione di vivere perennemente su un asse obliquo su cui occorre tenersi con due mani per non scivolare più in basso, è più facile che di fronte a qualcuno che ci chiede aiuto la scelta sia quella non di allungare la mano ma di dare una pedata per mantenere le distanze.

Certo, abbiamo una politica che con la sua incompetenza a la sua cattiveria strumentale ha alimentato tutto questo.

Ma mi pare che a essere cambiata in peggio sia la popolazione nel suo complesso. Una popolazione che di fronte a migliaia di morti si limita a un po’ di emozione. Non scende in piazza e non si indigna. Che se decide di protestare lo fa scegliendo di non occuparsi più della cosa pubblica, a partire dal non votare, ma che ha dismesso la propria capacità collettiva di opporsi e di denunciare. Forse, ci meritiamo la classe politica che abbiamo.

 

[Questo intervento riprende quello uscito il giorno 15 settembre 2022 sull'edizione napoletana del quotidiano "la Repubblica".]