Con una importante sentenza dello scorso luglio, la Corte costituzionale ha confermato l’esistenza delle persone non binarie; il giudice delle leggi ha infatti riconosciuto espressamente che un individuo, percependo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile, può ben avvertire l’esigenza di essere riconosciuto in un’identità “altra” (sent. n. 143 del 2024).

Si tratta di una conferma da non sottovalutare: in effetti, anche se la psicologia sociale ha ormai acquisito da tempo una concezione non binaria dell’identità di genere, l’ordinamento italiano non si è finora mai preoccupato di riconoscere l’esistenza giuridica di queste persone.

Anche se la psicologia sociale ha ormai acquisito da tempo una concezione non binaria dell’identità di genere, l’ordinamento italiano non si è finora mai preoccupato di riconoscere l’esistenza giuridica di queste persone

Ad avere sollecitato l’intervento della Corte è stato il Tribunale di Bolzano, che si è trovato a dovere decidere di un caso di “rettificazione” anagrafica di sesso (in Italia, le persone trans che vogliano ottenere dei documenti in linea con il proprio effettivo genere di appartenenza devono infatti per legge rivolgersi a un Tribunale -cfr. art. 1, legge n. 164 del 1982-).

Nel caso di specie, una persona Afab (Assigned female at birth) desiderava ottenere dei documenti in cui fosse indicato non il sesso maschile, opposto a quello anagrafico femminile assegnatole alla nascita, ma un sesso “altro”. Il Tribunale, rilevando come l’attuale legge sull’identità di genere non consenta di accogliere una domanda questo tipo, ha chiesto l’intervento della Corte costituzionale, ritenendo che il suddetto limite della legge leda l’identità, la salute e il rispetto della vita privata e familiare della persona non binaria.

Nel decidere della questione, la Corte non ha dichiarato l’illegittimità della norma contestata, perché ha ritenuto che solo il legislatore (“primo interprete della sensibilità sociale”) possa concretamente intervenire su una simile questione; ha però rilevato l’opportunità di evitare che questo mancato riconoscimento giuridico delle persone non binarie continui a generare una situazione di disagio idonea a condurre a delle disparità di trattamento e a una compromissione del loro benessere psicofisico.

Un ordinamento che riconosce centralità al principio personalistico non può restare impassibile dinanzi alle evoluzioni della società; rischia, altrimenti, di ledere valori di libertà e di dignità della persona umana

La prospettiva appare del tutto condivisibile: un ordinamento che riconosce centralità al principio personalistico non può restare impassibile dinanzi alle evoluzioni della società; rischia, altrimenti, di ledere valori di libertà e di dignità della persona umana. L’auspicio, dunque, è che il legislatore intervenga al più presto. L’operazione sarà di certo giuridicamente difficile, perché richiederà un particolare sforzo, una certa attenzione e una estrema serietà: l’introduzione di un “terzo genere di stato civile”, che si dovrà effettuare comunque senza strumentalizzazioni e propagande, presupporrà infatti un ripensamento legislativo di sistema, visto che i vari settori dell’ordinamento e i numerosi suoi istituti sono al momento regolati da una logica rigidamente binaria (si pensi al matrimonio, banalmente, o all’unione civile). Ciò non vuol dire però che sarà impossibile da realizzare.

Con questa sentenza, la Corte è in verità intervenuta anche su un’altra questione, altrettanto centrale: nel nostro Paese, chi voglia effettuare degli interventi chirurgici di affermazione di genere deve per legge ottenere una previa sentenza del giudice che la autorizzi a procedere in questo senso (cfr. art. 31, c. 4, del d.lgs. n. 150 del 2011). Ebbene: il Tribunale di Bolzano, nel chiedere l’intervento della Corte, ha ritenuto che questa regola comprima ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e il diritto alla salute delle persone trans e ha rilevato come la scelta di chi voglia sottoporsi a un intervento chirurgico di affermazione di genere non possa essere trattata diversamente da quella assunta da chi desideri sottoporsi a un qualsiasi altro intervento chirurgico, che, benché ugualmente demolitivo, non richieda alcuna previa autorizzazione giudiziale (si pensi a una vasectomia).

La Corte ha rilevato che la regola può in realtà ritenersi irragionevole (solo) nei casi in cui il giudice abbia già disposto la “rettificazione anagrafica” del sesso e abbia quindi già accertato che alla persona trans possa essere accordato il diritto a riconoscersi anagraficamente nel genere di appartenenza. Nelle altre ipotesi, dunque, l’autorizzazione resta a rigore esigibile.

Si potrà certamente meditare su quanto siffatta prescrizione normativa, non priva di caratteri paternalistici, sia - nelle eventualità diverse da quelle indicate dalla Corte - davvero ancora opportuna; e si dovrà a questo punto anche riflettere su cosa potrà cambiare, nella pratica, alla luce di questa sentenza. In quest’ottica, sarà importante verificare se le strutture sanitarie daranno facilmente seguito alle richieste di intervento chirurgico avanzate da persone trans che, avendo ottenuto la “rettificazione anagrafica”, non abbiano modo di esibire una sentenza in cui compaia un’autorizzazione espressa a effettuare i richiesti interventi. Per evitare che le stesse vi si oppongano ingiustamente, occorre che della pronuncia della Corte e dei suoi contenuti sia data una importante (ma corretta, in quanto frutto di una lettura rigorosa) diffusione.