Nelle scorse settimane Caivano è stato nuovamente teatro di episodi di violenza e ha catalizzato l’attenzione della stampa, della politica e dell’opinione pubblica, mentre è di oggi la notizia degli arresti di nove presunti autori delle violenze. Si è così riavviato il dibattito sulle periferie urbane e sulle loro condizioni di vivibilità e sicurezza per chi le abita. Basta scorrere alcuni richiami dai quotidiani per rilevare come a questo comune dell’area metropolitana di Napoli siano stati associati termini di un lessico appartenente a un immaginario ben preciso. “Inferno in terra”, “terreno da bonificare”, “polveriera”, solo per fare qualche esempio di denotazioni mediatiche del contesto, oltre a contribuire ad accrescere l’allarme sociale, destano nuova attenzione politica e una conseguente presenza di forze dell’ordine.
L’intervento di repressione operato dallo Stato con il Decreto legge n. 123 del 15 settembre 2023, “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”, subito ribattezzato “Decreto Caivano”, ha inasprito le sanzioni, anticipando la repressione nei confronti dei cittadini (soprattutto giovani e minorenni), in ottica di prevenzione dei reati, sulla base di indizi di pericolosità sociale. Tuttavia uno Stato che fa di legge e ordine la propria bandiera apre interrogativi sul significato del termine "sicurezza", che da condizione sociale sta diventando sempre di più sinonimo di incolumità individuale (si veda A. Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti? in La bilancia e la misura: giustizia, sicurezza e riforme, a cura di S. Anastasia e M. Palma, Franco Angeli, 2001). Parlare di sicurezza nelle città, infatti, vuol dire parlare di un tema complesso che non si riferisce solamente alla sfera di fenomeni compresi nella classica formula “ordine pubblico e sicurezza” (la commissione di reati e fatti devianti e tutta la serie di eventi a essi collegati), la cui tutela è tradizionalmente affidata in misura preponderante allo Stato, ma che si estende anche a quell’insieme di processi in grado di alterare la percezione sociale dell’insicurezza, al di là della presenza più o meno concreta di una minaccia di tipo criminale.
In altre parole, con la sicurezza urbana nel suo senso più pieno il Codice penale sembra c’entrare poco: occorrerebbe viceversa estenderne il significato fino a ricomprendere al suo interno una serie di fenomeni relativi alla “qualità della vita” intesa in senso ampio, inclusi quindi gli aspetti economici, sociali, relazionali, oltre che percettivi, della sicurezza. Nella prospettiva che pone le città metropolitane al centro dei nuovi processi economici (rimando a S. Sassen, Città globali, trad. it. Utet, 1997), la sicurezza acquista la sua connotazione urbana e diventa rilevante per situare le questioni che riguardano il governo degli spazi in cui vive la maggior parte della popolazione.
L’azione di governo dovrebbe articolarsi secondo strategie di intervento di tipo politico, sociale e culturale che, molto più efficacemente dell’azione penale, possono consentire di rispondere ai bisogni di sicurezza dei cittadini
Come emerge da numerose ricerche empiriche nazionali e internazionali, la strategia complessiva di tutela della sicurezza nelle aree urbane si articola in due direzioni: la prima prevede lo sviluppo di dispositivi tecnologici di controllo, mentre la seconda riguarda la riconfigurazione dello stesso spazio urbano che tende a polarizzarsi, ad accentuare le divisioni sociali al suo interno attraverso la creazione di divisioni architettoniche e di spazi privati ad accesso limitato e controllato. Questa visione della sicurezza e delle relative politiche di tutela mette in luce la diffusione di quella che è stata chiamata la nuova cultura del controllo (cfr. D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, trad. it. Il Saggiatore, 2004), che si definisce per lo spostamento della giustizia penale da un orientamento assistenziale a uno di carattere maggiormente punitivo e per la diffusione di una “criminologia della vita quotidiana” centrata sostanzialmente sulla prevenzione situazionale, cioè sul controllo dello spazio (urbano) e non sull’evoluzione nel tempo del reo verso l’integrazione sociale.
La ricaduta di questa nuova riconfigurazione del potere statale sulla vita delle città e sulle politiche di tutela della sicurezza urbana è la fondazione negativa della comunità, una comunità in cui il legame sociale su cui si costruisce è quello della vittimizzazione collettiva e i cui confini trasformano i territori urbani in un insieme di spazi di segregazione segnati da barriere che separano inclusi da esclusi. La sicurezza urbana è sempre più intesa come parte della sicurezza e dell’ordine pubblico ove lo Stato determina priorità e ambiti di intervento in concorrenza, soprattutto con le Regioni (cfr. R. Selmini, La sicurezza urbana, Il Mulino, 2014).
I fatti recenti di Caivano, se da una parte hanno contribuito a far sentire la presenza dello Stato tra i cittadini in un contesto caratterizzato da una radicata criminalità organizzata, dall’altra parte hanno riassegnato la sovranità delle periferie allo Stato. L’Italia, anche se caratterizzata da un degrado sociale dato dal profondo radicamento in alcune aree del Paese della criminalità organizzata, ha assimilato l’azione del governo francese sulla questione delle banlieues e, molto prima, della Gran Bretagna con la securitizzazione delle periferie voluta da Margaret Thatcher. Politiche che ruotino attorno alla priorità dell’azione penale – preventiva e/o repressiva – e che prevedano una riorganizzazione delle modalità di controllo del territorio lasciano in buona misura intatte le cause che, a monte, alimentano il sentimento di insicurezza espresso dai cittadini e rischiano di generare due effetti egualmente pericolosi: una legittimazione del sistema penale in una dimensione prevalentemente simbolica, da un lato, e una privatizzazione della tutela di un bene sociale come la sicurezza, dall’altro. La risposta del governo ai fatti di Caivano è la tipica risposta a breve termine di tipo emergenziale. Ferme restando le esigenze di contrasto alle organizzazioni criminali e di tutela dei cittadini, ciò che sarebbe necessario sarebbe un intervento a medio-lungo termine.
È sempre più necessario trovare misure per ripristinare legami di coesione sociale in aree urbane a rischio, che possano tradursi in iniziative di “partecipazione diretta”
Alla prima risposta di sicurezza (comunque contestabile nella sua brutalità e miopia) andrebbe abbinata una strategia sociale e politica che, molto più efficacemente dell’azione penale, possa consentire di rispondere ai bisogni di sicurezza dei cittadini. Tale strategia dovrebbe dispiegarsi tramite politiche di prevenzione sociale intesa come lavoro sulle cause, anche come conseguenza della crisi economica e dei tagli alle politiche sociali. In altre parole, politiche rivolte all’empowerment dei gruppi più deboli e a rischio di esclusione, progettate e realizzate con una forte attenzione per le specificità dei contesti locali e l’attivazione di forme di partecipazione sociale – il buon funzionamento dei servizi, sanità e scuole in primis, nell’ipotesi che la rivitalizzazione della vita sociale nei quartieri possa, di per sé, generare una rassicurazione basata sulla riattivazione di forme di controllo endogeno di tipo comunitario e sulla riappropriazione diretta degli spazi pubblici da parte dei cittadini.
In conclusione, per superare la distanza siderale che separa lo Stato dai territori più emarginati, come il caso di Caivano ha dimostrato, occorre ridimensionare la domanda di pena nell’opinione pubblica e incorporare la politica criminale quale elemento sussidiario di una politica integrata e pubblica della sicurezza. Ciò comporta che le istituzioni, quando chiamate a intervenire, evitino la tentazione di limitarsi ad adottare interventi di pura e semplice prevenzione situazionale (come l’installazione di videosorveglianza o il rafforzamento della presenza della polizia) senza pianificare un’azione sul territorio che tenga in dovuto conto la complessità e l multidimensionalità del fenomeno dell’insicurezza. È sempre più necessario trovare misure per ripristinare legami di coesione sociale in aree urbane a rischio, che possano tradursi in iniziative di “partecipazione diretta” dei cittadini e/o di loro associazioni alla vita pubblica nei quartieri, in un loro coinvolgimento all’interno di progetti di riqualificazione urbana e/o di rivitalizzazione di aree depresse, o in una serie di microinterventi finalizzati a favorire l’accesso alla socializzazione nei quartieri.
Riproduzione riservata