Ha ragione Ernesto Galli della Loggia, quando nell’editoriale pubblicato dal “Corriere della Sera” il 23 novembre afferma che la presenza dello Stato d’Israele produce idee e atteggiamenti di disagio e inquietudine in Europa. Lo riconosco. Però le mie ragioni di disagio e inquietudine sono diverse dalle sue.
Per lui, “Israele è profondamente antipatico a molti in questa parte del mondo […] suscita in molti qui da noi un sentimento di fastidio, di sordo rigetto. Israele non piace”. Non so su quali basi egli possa fondare tali affermazioni, forse ci sono dati e riscontri empirici che non conosco. Ma non è questo il punto. È piuttosto l’interpretazione che egli fornisce di questa “sorda”, e forse anche “muta”, antipatia nei confronti di Israele a suscitare, almeno in me e forse anche in altri, un certo sgomento. “Con la sua stessa esistenza – scrive – Israele ricorda a noi occidentali quello che non siamo, che non vogliamo o non sappiamo più essere”. A noi in Europa mancherebbe il sentimento di unità, di coesione, di comunità, capace di andare al di là delle fratture religiose, culturali, ideologiche, sociali e politiche. In sostanza, per Galli della Loggia quella che manca in Europa, o non c'è più, è una forte idea di nazione, dalla quale derivano la solidarietà, il senso civico, “la disponibilità al sacrificio personale […] che si esprimono in modo peculiare nel suo rapporto con la guerra”.
Nelle parole di Galli della Loggia affiora un’ammirazione per la capacità dello Stato di Israele di mettere da parte i contrasti interni, anche profondi, per far fronte comune contro il nemico rappresentato da Hamas, e una sorta di nostalgia per un’epoca in cui anche in Europa la gente era disposta a sacrificare la vita per la patria: “la guerra mette in gioco tratti ancestrali dell’identità umana cui è difficile negare un valore elementare quanto si vuole ma pur sempre cruciale: il coraggio, il sentimento di solidarietà con chi sta al nostro fianco, l’abnegazione”.
Che oggi la quasi totalità della popolazione d'Europa non abbia mai vissuto un periodo così lungo di assenza di guerra non può essere che fonte di speranza, non di nostalgia
Sembra una frase scritta tra XIX e XX secolo, prima delle due guerre mondiali. Dopo il 1945 ci sono state le guerre delle ex potenze coloniali, la guerra nell’area balcanica e ora in Ucraina, ma una parte consistente d'Europa ha dapprima ripudiato e poi rimosso questi “valori”, trasformandoli in dis-valori. Che oggi la quasi totalità della popolazione d’Europa non abbia mai vissuto un periodo così lungo di assenza di guerra non può essere che fonte di speranza, non di nostalgia.
Forse se lo Stato d’Israele non suscita in Europa l’adesione entusiasta che Galli della Loggia vorrebbe sentire è anche perché la storia europea evoca un passato al quale non c'è alcuna voglia di ritornare. Del resto, lo Stato di Israele non sarebbe probabilmente mai esistito se l’antisemitismo non avesse raggiunto la sua massima espressione nella fase nazionalista della storia d’Europa.
L’antisemitismo è un fenomeno antico, nasce insieme alla diaspora. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e l’eccidio degli ebrei da parte delle legioni romane nel 70 d.C., i superstiti iniziano a disperdersi e a creare degli insediamenti nell’area del Mediterraneo, compreso il Nord Africa. Talvolta vengono ben accolti, talvolta tollerati, talvolta perseguitati e espulsi, oppure costretti a convertirsi. In epoca moderna la diaspora si estende da Occidente a Oriente, dalla penisola iberica all’Italia, alla Francia, alla Germania, alla Polonia, all’Ucraina, alla Russia, alla Romania. La cultura ebraica si declina e si adatta a seconda dei contesti che attraversa. Le ragioni sono di tipo religioso, culturale, economico, politico.
Non c’è dubbio che la “questione ebraica” nasca dalla pretesa di ogni popolazione che crede in un solo dio che il proprio sia l’“unico vero”, mentre quello degli altri sia una “falsa” divinità. Questo spiega come le guerre di religione più accanite, come ci ha spiegato il grande egittologo Jan Assmann (Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, trad. it, Il Mulino, 2007), si siano combattute tra popoli di religione monoteista. La questione ebraica nasce dallo scontro di monoteismi diversi che trovano tuttavia la loro comune origine proprio nella religione ebraica.
Ma le ragioni religiose sono spesso un pretesto per coprire conflitti di altra natura. Una minoranza, religiosa o di altro tipo, oltre ad essere costretti a svolgere funzioni che alla maggioranza sono precluse, come il prestito a usura, può funzionare da capro espiatorio, per espellere il male che una comunità non può accettare al proprio interno. La coscienza collettiva, la solidarietà, il “noi” richiedono sempre un “loro” al quale contrapporsi. Identità ebraica e antisemitismo si sono sostenuti reciprocamente. Non dico che senza l’antisemitismo l’identità ebraica si sarebbe dissolta, ma è stata una componente importante della sua sopravvivenza. Quanto l’antisemitismo abbia contribuito alla sopravvivenza dell’identità ebraica è questione che merita di essere ripresa. Le identità collettive si profilano quando definiscono il “non noi”, gli “altri”, nascono in un rapporto di contrapposizione. Sul tema Marx, Martin Buber, Sartre, Elias e tanti altri fino a Edgar Morin hanno scritto pagine illuminanti.
Tuttavia, quando a partire dalla Rivoluzione francese si afferma lo Stato nazionale e l’idea di popolo si fonda su e si confonde con l’idea di nazione nasce un problema, perché la storia ha frammentato l’identità ebraica in una pluralità di nazioni diverse, spesso tra loro ostili. Non è una semplice coincidenza storica che a fine Ottocento, nella fase culminante dei nazionalismi europei, nasca il movimento sionista che vuole dare un territorio e uno Stato a una popolazione sparsa in tutto il mondo ma soprattutto sul continente europeo. Inizia la rivendicazione del ritorno nella terra dei padri (la patria), coloni ebrei si insediano nelle campagne, nei villaggi e poi nelle città, il movimento si diffonde ma resta fondamentalmente minoritario fino a quando l’antisemitismo non raggiunge la sua estrema espressione in Germania, nella Shoah e nel nazionalsocialismo. La “colpa”, se di colpa si può parlare, non è soltanto della Germania, ma dell'Europa tutta. Il sionismo e la creazione di uno Stato di Israele in terra di Palestina sono difficilmente immaginabili senza l’antisemitismo alimentato dai nazionalismi e di cui il razzismo è la forma estrema. Non si tratta, quindi, di antipatia per Israele da parte europea, quanto piuttosto di un malcelato senso di colpa per essere stata all’origine dell’insorgere della questione. I nazionalismi hanno costretto un popolo che le vicende storiche avevano reso naturalmente cosmopolitico a desiderare di costituirsi in Stato-nazione.
È questa la ragione del disagio che io, ma forse anche molti altri, provano in questi giorni di fronte a quello che sta succedendo nella “terra promessa”: lo scontro tra due nazionalismi, uno che è riuscito ad affermarsi come Stato nazionale e l’altro che persegue la stessa meta, scontro dal quale non può emergere che rabbia, odio e violenza col rischio che tutto ciò si estenda nello spazio e nel tempo anche alle generazioni a venire. Il movimento sionista è la versione ebraica del nazionalismo europeo.
Gli ebrei europei avevano goduto (si fa per dire) dell’incerto “privilegio” di mantenere una propria identità come popolo pur avendo “patrie” diverse, erano nello stesso tempo “cittadini” ma anche “stranieri”, italiani, tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi, russi ecc. Ma anche “ebrei”. In un certo senso, possiamo dire che gli ebrei avrebbero potuto costituire un nucleo originario di un popolo europeo in formazione se il nazionalismo europeo non li avesse costretti a diventare essi stessi dei nazionalisti.
Gli ebrei avrebbero potuto costituire un nucleo originario di un popolo europeo in formazione se il nazionalismo europeo non li avesse costretti a diventare essi stessi nazionalisti
I palestinesi hanno fatto parte per secoli dell’impero ottomano. Come tutti gli imperi, che erano organizzazioni politiche tendenzialmente sovra-nazionali, anche quello ottomano lasciava ampia autonomia alle provincie. Alla dissoluzione dell'Impero dopo la Prima guerra mondiale, subentrò l'amministrazione mandataria britannica; ma è solo dopo la nascita dello Stato d'Israele, con la famosa e contestata risoluzione delle Nazioni Unite del 1947, che si forma un movimento (l’Olp) che rivendica la creazione di uno Stato palestinese.
Oggi, l'unica soluzione capace di placare il conflitto sembra essere la costruzione di due Stati ai quali però solo una ferrea garanzia a livello mondiale potrà imporre la pace. Soluzione auspicabile, ma francamente improbabile. A parte le difficoltà legate agli inevitabili spostamenti di popolazioni, la soluzione a due Stati scatenerebbe forti opposizioni sia all'interno di Israele sia tra le fazioni palestinesi. L’inquietudine sorge perché è difficile intravvedere come le grandi potenze possano convergere nell'attribuire all'Onu il potere di imporre la pace. Due Stati sovrani dietro e a sostegno dei quali si schierino coalizioni e alleanze a livello internazionale rischiano di aumentare il caos in una delle aree più pericolose del pianeta.
Quello che mi sembra Galli della Loggia non consideri nell'esaltazione nostalgica dei valori della nazione e della guerra è che non si tratta di scegliere se stare dalla parte di Israele o di Hamas. In guerra le atrocità sono da tutte e due le parti. È la guerra che è atroce, non i combattenti. Vi sono buone ragioni per difendere l’esistenza dello Stato d’Israele e buone ragioni per considerare legittime le aspirazioni palestinesi di costituirsi in forma di Stato. Se vogliamo salvare il pianeta dal rischio di una Terza guerra mondiale, ci vorrebbe una soluzione a due Stati tra loro federati sotto la garanzia dell’Onu e dell'Unione europea: una soluzione francamente poco probabile, seppure non del tutto impossibile. Sia all’interno di Israele sia tra i palestinesi ci sono stati segnali che ci mostrano come il dialogo non è impraticabile. Segnali che si possono indebolire, ma anche rafforzare. In fin dei conti, l’Europa, dopo la tragedia dei nazionalismi che si sono combattuti per un secolo e mezzo, ha dimostrato che antichi nemici possono convivere pacificamente. Purtroppo, si tratta di una lezione che la stessa Europa sembra non avere finito di imparare, dimostrando di non possedere ancora l’autorità morale per trasmetterla ad altri.
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