Non sono mai stato a Schuld, poco più di 700 abitanti in Renania-Palatinato, in Germania. Ma ho visitato molte cittadine tedesche che sembrano Schuld. Sono ordinate, i cartelli stradali ben diritti e leggibili, gli uffici della Postbank con i furgoncini Caddy parcheggiati fuori tutti in fila, le insegne degli ordini professionali e dei mestieri, le piste ciclabili ben tenute, le auto dei residenti sempre pulite che paiono uscite dalla concessionaria il giorno prima.

Schuld è una piccola Europa normale, a volte è l’Europa migliore, quella che invidiamo noi italiani in gita, ridacchiando del caffè «lungo» di Tchibo e delle scarpe improbabili in vendita da Deichmann.

Non sono mai stato a Schuld né, prima di mercoledì, sapevo dove fosse. Ora che anch’io come tanti ho visto le immagini della devastazione so dov’è e mi sembra che quel disastro sia così vicino da toccarlo. Perché è accaduto nella Germania perfetta e, nonostante tutto, ricca, lontana anni luce dalla gran parte delle nostre città eppure così vicina.

Nelle settimane scorse abbiamo visto quanto stava succedendo in Canada, e poi in Amazzonia, dove ancora una volta gli incendi dolosi stanno distruggendo migliaia di ettari di foresta: l’altro giorno le emissioni di CO2 dovute agli incendi superavano la CO2 assorbita dall’intera area. Abbiamo visto il Canada e l’Amazzonia dopo aver visto gli incendi inediti nel Nord del Nord dell’Europa, in Scandinavia, due anni fa. E, naturalmente, abbiamo visto anno dopo anno le devastazioni del territorio italiano, le vittime, i conti altissimi dei danni e delle conseguenze del maltempo. Sì, perché ancora oggi i giornali parlano di «maltempo». Così come parlano di «natura maligna». Incredibile, vero?

Eppure sappiamo tutto da decenni. E soprattutto sanno tutto i decisori. Era il 1990 quando nel suo primo rapporto l’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico nato due anni prima) indicava che l’effetto serra avrebbe accentuato i due estremi del ciclo idrologico: ci saremmo dovuti preparare ad avere episodi di piogge forti e abbondanti sempre più frequenti così come episodi di grave siccità. Nel 1990 era appena caduto il Muro di Berlino, ma la Jugoslavia non si era ancora dissolta. Nel 1990 noi eravamo ancora nella Prima Repubblica e Reagan aveva appena lasciato la Casa Bianca.

Sapevamo tutto da molto tempo ma non abbiamo fatto niente. E quando, finalmente, i decisori sovranazionali si sono mossi, i singoli Stati hanno iniziato a opporsi.

 

Sapevamo tutto da molto tempo ma non abbiamo fatto niente. E quando, finalmente, i decisori sovranazionali si sono mossi, i singoli Stati hanno iniziato a opporsi

 

Molto è stato fatto a livello di Unione europea, anche se a lungo le normative sono apparse più un modo per procrastinare le decisioni drastiche consentendo ad esempio ai produttori di auto di limitare i danni e, anzi, di aumentare in certe fasi i profitti. Le politiche basate sulle normative antinquinamento si sono spesso segnalate per la loro impopolarità e hanno portato a forme di protesta sociale che a volte si sono strutturate in movimenti: così è nata in Francia la protesta dei Gilet Jaunes. Ancora oggi gli interventi che mirano a sostituire le fonti di inquinamento domestico sono corrotte da una forma implicita di diseguaglianza sociale, che solo in parte le diverse forme di incentivo possono correggere. A tale proposito, le misure annunciate recentemente dal governo italiano appaiano ancora una volta soprattutto come uno strumento per sostenere il mercato dell’auto.

Sulla scia del ritrovato protagonismo successivo alla necessità di trovare risorse e risposte alle conseguenze socio-economiche della crisi sanitaria, la Commissione ha lanciato un ambizioso piano climatico, che prevede la fine della produzione di veicoli a combustione entro il 2035. I produttori di auto si sono opposti («è troppo presto, non ce la faremo mai, i costi sarebbero insostenibili»), il mondo dell’aviazione pure, gli Stati membri dell’Est Europa hanno chiesto maggiore progressività nel taglio alle emissioni, Macron preferirebbe lasciar passare le elezioni (mentre la Francia dovrebbe svolgere un ruolo centrale nella conduzione dei negoziati sul pacchetto verde dal momento che l’anno prossimo assumerà la presidenza di turno dell’Unione, proprio in coincidenza con le elezioni presidenziali), l’Italia, per bocca del ministro Cingolani, ha fatto sapere che la transizione ecologica ha costi troppo elevati per essere rapida come alcuni chiedono, lasciando così il ricorso agli idrocarburi ancora come la strada maestra (a margine, conviene ricordare il referendum sulle trivelle fatto fallire dal governo guidato da Matteo Renzi nel 2016). A nulla, almeno sinora, pare siano servite le parole del vicepresidente della Commissione responsabile del Green Deal, Frans Timmermans, secondo il quale le misure sono necessarie per «mettere un prezzo al carbonio e un premio alla decarbonizzazione: gli strumenti di cui disponiamo ora non bastano. Se non combattiamo la crisi climatica, combatteremo guerre per acqua e cibo».

I governi di Francia, Spagna, Italia, Ungheria, Lettonia, Irlanda e Bulgaria si sono detti preoccupati circa l’impatto sui cittadini. E le riforme che dovrebbero ridurre - rispetto ai livelli del 1990 (sempre il 1990) - le emissioni medie di gas serra del 55%, entro il 2030 per poi raggiungere l’obiettivo di emissioni pari a zero entro il 2050, per entrare in vigore avranno bisogno del sostegno di una maggioranza qualificata dei governi dell’Unione e del Parlamento europei.

Dovrebbero entrare in gioco gli attori politici nazionali, che ancora una volta però si mostrano interessati più che altro a non preoccupare troppo i propri potenziali elettori

Qui dovrebbero entrare in gioco gli attori politici nazionali, che ancora una volta però si mostrano interessati più che altro a non preoccupare troppo i propri potenziali elettori. Così, ad esempio, in Germania (il Paese che insieme alla Danimarca più sta spingendo in seno al governo dell’Unione europea per accelerare la decarbonizzazione dei trasporti e degli edifici) si guarda con preoccupazione all’imminente voto per il rinnovo del Bundestag, con in testa le conseguenze che nell’estate del 2002 eventi climatici estremi ebbero nella sfida a Cancelliere tra Edmund Stoiber e Gerhard Schröder. Mentre da parte delle principali forze politiche presenti nel Parlamento italiano abbiamo sinora udito soprattutto parole di solidarietà ai Paesi colpiti dalle alluvioni spaventose di questi giorni ma nessun impegno rispetto alle scelte (da molti criticate quelle in argomento presenti nel Pnrr presentato dall’Italia alla Commissione europea) da compiere per contrastare nei fatti i cambiamenti climatici. In compenso, in qualche caso, è giunto l’invito alla preghiera.

Forse un po’ poco di fronte a un cambiamento che ci riguarda da vicino. Se non vogliamo fare qualcosa per i nostri figli  e i nostri nipoti facciamolo, con sano egoismo, almeno per noi stessi.