Il direttore di un cinema storico di Bologna quel giorno sembrava attonito. Era la fine di maggio del 2020. «Il cinema per me è solo la sala, non riesco a collegare l'uscita di un nuovo film con la sua visione online. Lo sapevo che la sala cinematografica doveva sparire, come tutte le cose umane. Era toccato alla lirica, poi alla prosa. Speravo solo di non esserci per vederlo, e invece non ho fatto nemmeno in tempo ad andare in pensione». Come si risponde a un tale sconforto? Di certo non con la Netflix della cultura. L'ecatombe dello spettacolo dal vivo, provocata dal controllo della pandemia, ha dato il colpo di grazia a un settore che da sempre piace quando prevede tappeti rossi, statuette luccicanti, star e première sontuose, ma che risulta sgradevole quando manifesta la sua natura di precariato, incertezza, conquiste quotidiane, sperimentazione e altre rotture di scatole. Ora gli attori fanno i riders, i ballerini fanno i dog-sitter.
E il cinema? Che cosa combina la settima arte, che tutto sommato se l'è cavata migrando le sue opere sulle piattaforme online (con buona pace del direttore suddetto)? I set cinematografici non hanno mai chiuso, malgrado le norme rigide di controllo, e le piattaforme di visione si sono moltiplicate per rimpinzare di immagini in movimento i ragazzini in Dad e i genitori in smart working. Quindi, il cinema è morto, viva il cinema? Forse, prima di esultare per le nuove sorti progressive, è meglio dare un'occhiata dall'interno.
La prima considerazione parte dal fatto che il 2020, e in parte anche il 2021, è stato l'anno del «cinema senza cinema». Sembra una banalità, ma con ogni probabilità, e magari con regole più precise, ciò apre un nuovo scenario dove lo stato emergenziale si tramuterà in norma, con il conseguente ridimensionamento del ruolo della sala cinematografica come spazio della première del film e con lo sdoganamento di pellicole in uscita esclusiva su piattaforme online, seguendo il sentiero già aperto negli scorsi anni, tra molte polemiche, dai grandi festival internazionali.
La prima considerazione parte dal fatto che il 2020 è stato l'anno del "cinema senza cinema", mentre la seconda riguarda l'eterno problema dei cinema intesi come spazi fisiciLa seconda riflessione riguarda, invece, l'eterno problema dei cinema intesi come spazi fisici, dove si va a vedere un film. L'assenza delle sale, alla quale ci siamo malauguratamente adattati, si tramuterà, con la nuova stagione da settembre, quasi certamente nella morte di moltissime sale che non reggeranno a una ripartenza contingentata, indebolita da una campagna di informazione contro il Coronavirus che ha per prima cosa demonizzato i rischi connessi a rinchiudersi per un paio d'ore nel buio di una sala, proponendo implicitamente la facile soluzione delle tante piattaforme di streaming.
Chi riaprirà, avrà la concorrenza diretta e poderosa di Netflix (che ha superato i 200 milioni di abbonati nel mondo con 37 milioni di nuovi abbonati soltanto nel 2020), Amazon, Chili, Mubi, Youtube, Disney+ (87 milioni di abbonati in un anno), che già c'erano ma che escono potenziate all'inverosimile da più di un anno di sostanziale quarantena.
Oltre a questi colossi, si aggiungeranno anche i tanti altri spazi di visione nati in questi mesi. Alcuni di questi «cinema online», nati dalla volontà di distributori ed esercenti, come ad esempio #iorestoinsala o miocinema, probabilmente rimarranno come semplice supporto in streaming di una rinnovata e precaria programmazione in sala (sempre che risolvano l'oggettiva difficoltà di accesso e fruizione che li rende complicati e respingenti), altri invece, come Iwonderfull, Wantedzone o RaroVideo, si trasformeranno in maniera stabile in strumenti di proposta di intere library di distributori o circuiti, andando a potenziare, come già fanno, le offerte di piattaforme quali Prime o MyMovies.
Il caso di quest'ultimo è, in questo senso, interessante. La pandemia ha trasformato MyMovies, da sito di informazione sui film, nel principale diffusore di film dei distributori minori, avviando nella primavera 2020 #iorestoacasa, che ha avuto due milioni e mezzo di spettatori. Successivamente, la struttura è cambiata e il sito è diventato collettore di library di distributori, come appunto Iwonderfull o Wanted zone, dei quali propone anteprime e nuove uscite e, soprattutto, è diventato lo snodo di tutti i festival di cinema di piccole-medie dimensioni che hanno sperimentato l'online con entusiasmo e buoni esiti, e che di certo, anche a pandemia finita, non abbandoneranno questa modalità di visione che consente loro di raggiungere pubblici lontani, affrancando lo spettatore dalla presenza in sala.
Abbiamo assistito alla nascita di un nuovo tipo di festival delocalizzato, spersonalizzato, non più luogo di incontro (a meno che non vogliamo considerare le chat come incontro), ma promotore dell'ennesimo consumo culturale online per nicchie (o tabernacoli) di mercato. I festival (nella lista di MyMovies ce ne sono veramente tanti), nati per proporre ciò che il mainstream non mostrava, si sono messi a sgomitare per avere spazio nel main-streaming. Essi continueranno su questa strada ibrida, perché garantisce loro una maggiore visibilità, più pubblico e più stampa: di certo un bene, se visto dalla prospettiva individuale del singolo festival. D'altra parte, l'esplosione online delle rassegne non fa che aumentare il rumore di fondo e ampliare uno scenario da supermarket online dell'audiovisivo.
Tutto è sempre lì a disposizione del consumo indifferenziato: dobbiamo ingozzarci di immagini per essere aggiornati, dobbiamo trasformarci in “video obesi”Tutto è sempre lì a disposizione del consumo indifferenziato: un film d'autore coreano si infila tra due puntate di una serie di Netflix, l'ultima puntata di «Report» spezzetta un vecchio film di Bergman, alla faccia di profondità, concentrazione e comprensione; come disse Mr Creosote: «Tutto in un secchio, con le uova in cima», a maggior ragione con le funzioni di visualizzazione velocizzata che su YouTube consentono di vedere un film a velocità due volte maggiore rispetto alla sua velocità reale (come avviene anche coi podcast). Dobbiamo ingozzarci di immagini, vedere tutto per essere aggiornati, dobbiamo trasformarci in «video obesi».
Quando l'immunità «di gregge» ci farà tornare a mettere la testa fuori dai rifugi, la domanda degli spettatori del cinema (già sparuti e anagraficamente invecchiati prima del virus) sarà: perché tornare a frequentare la sala (magari sempre con la mascherina), se tutto il possibile verrà trasmesso immediatamente su una piattaforma o su un’altra (quando non in due o tre contemporaneamente), spesso con anteprime esclusive e dirette con registi e attori? Quale attrattiva potrà esercitare la sala mono schermo urbana che ripropone, a fronte di almeno 8 euro di biglietto, non dico il blockbuster di turno (pratica obsoleta e censurabile di un esercizio già in agonia e privo di slancio ben prima della pandemia), ma anche il film d'essai del «regista famoso», già predisposto e confezionato per la visione su Netflix o Chili (con costi infinitamente minori anche per il singolo noleggio)?
La sala si ritroverà nell'imbuto nel quale già sono precipitati i teatri: sopravvive solo chi è sussidiato dal denaro pubblico, chi ha una proposta culturale unica nel suo territorio di riferimento, chi ha la capacità di organizzare il pubblico o offrirgli un servizio integrato, non sostituibile. Queste opzioni non sono tutte identiche. Da un lato, potranno rimanere sulla breccia, supportati generosamente dal denaro pubblico, anche grosse multisale d'essai, poli culturali e sale storiche, dall'altro, si potrà riattivare una rete delle piccole sale indipendenti, frutto di incessante lavoro sia nella promozione sia, soprattutto, nella programmazione.
Questo vasto mondo di piccole e medie isole del cinema ha inventato formati e contesti di programmazione anche durante la pandemia, si è federato, coordinato e ha raccolto attorno a sé registi, case di produzione e pubblico (ad esempio 1895). Molte piccole e agguerrite sale diffuse sul territorio nazionale continueranno a unire alla proposta unica, fermamente autonoma sia nelle scelte culturali sia in quelle politiche, anche un servizio alla comunità non sostituibile, riusciranno a proseguire, a forza di braccia, la navigazione nell'oceano delle immagini cinematografiche indifferenziate e pervasive che saltano fuori in ogni momento, in ogni luogo e su ogni supporto (ormai persino la radio «si deve vedere»). Queste sale, radicate nelle loro città, paesi e quartieri, avranno bisogno di rafforzare le reti, riuscire ad accedere a fondi pubblici locali e ai rimasugli dei finanziamenti nazionali; dovranno trasformare il cinema in sala in un'esperienza sempre più qualificata con contenuti unici e approfondimenti (anche online naturalmente), affinché il cinema sia un’assunzione di responsabilità nella vita culturale dei cittadini, che potranno definire la loro «appartenenza» politica anche attraverso la scelta di un oggetto artistico e del suo modello di produzione.
La qualità dell'opera, e di conseguenza della sala che la propone, dovrà transitare sempre meno su binari esclusivamente estetici e sempre più sui binari definiti dallo spazio produttivo di appartenenza. Il cinema per il vasto pubblico della sala, il cinema che si finanzia con gli incassi (e con generosi sostegni pubblici), chiuderà la sua tutto sommato breve vicenda storica e completerà il suo spostamento sulle piattaforme, salvando magari grandi eventi in multisale costose con ampio parcheggio.
Il cinema per il pubblico della sala, che si finanzia con gli incassi, chiuderà la sua tutto sommato breve vicenda storica e completerà il suo spostamento sulle piattaformePer completare il quadro del riassetto del sistema distributivo, è già all'orizzonte una possibile linea specifica di Tax Credit (credito di imposta per le opere cinematografiche), destinato alle produzioni che non hanno né la sala né la Tv come prima destinazione, bensì la piattaforma online (quindi Prime, Netflix e Soci) per agevolare la «riconversione industriale». Se cede, come sta cedendo, la diga dello spazio di visione della sala, luogo privilegiato per gli spettatori delle piccole e medie produzioni d'essai, è facile immaginare che la produzione media verrà inghiottita dai big one, esattamente come la distribuzione, con effetti prevedibili sulla varietà estetica del cinema italiano. Chi per fortuna è e resterà fuori dal grande gioco sono i piccolissimi, le microimprese, che lavorano col plancton lasciato in giro dalla Rai, dal Mic o coi soldi delle molte attivissime Film Commission regionali.
Questi pesci piccoli e piccolissimi che producono molto e diffondono tenacemente con ogni mezzo, passeranno di certo attraverso la rete e continueranno a nuotare perché si alimentano con poche risorse e hanno una forte capacità di adattamento e di lavoro interstiziale: possono affiorare una volta con un film su una piattaforma o su una rete generalista, e allo stesso tempo proporre in molte reti militanti e diffuse sul territorio le loro produzioni; sono soprattutto la linfa delle sale off di cui si diceva sopra e di un'idea di produzione cinematografica attenta alla specificità di ogni singola opera. Il gigantismo dei bulldozer del cinema che trasformano le immagini e i film in un flusso ininterrotto, in un rumore di fondo costante, streaming appunto, nemmeno li notano questi pirati del cinema: questo sarà la loro (e la nostra) salvezza.
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