Sei nato alla periferia di Hanoi, hai imparato l’inglese a prezzo di sforzi inenarrabili, sei riuscito a entrare all’università e la tua università ha un programma di scambio-studenti con università italiane. Ti candidi, vinci, parti per l’Italia. Oppure. Sei nata a Isfahan, terza città dell’Iran, ti sei auto-insegnata l’inglese, ti sei iscritta all’università soprattutto perché vuoi andare via dal tuo Paese, dalla tua famiglia, il ministero degli Esteri italiano offre borse di studio per studenti asiatici. Ti candidi, vinci, parti per l’Italia. Oppure. Sei nato a Berlino, studi alla Freie Universität, parli quattro lingue ma vorresti impararne una quinta. Sei al secondo anno, decidi di prendere una delle tante borse Erasmus dell’Unione europea, passerai un semestre in Italia.

Gli studenti stranieri che vengono in Italia sono diversi, e torneranno in patria con esperienze e idee diverse, ma è chiaro che a tutti – il vietnamita, l’iraniana, il tedesco – farebbe comodo ricevere, al loro arrivo, un minimo pacchetto di benvenuto con dentro… Con dentro che cosa? Con dentro esattamente quello che farebbe piacere trovare a noi se ci trovassimo di colpo ad Hanoi, Isfahan, Berlino – noi a vent’anni, senza l’uso del mondo e il denaro che possediamo a cinquanta.

Siamo stranieri in un Paese straniero, siamo giovani e squattrinati: vogliamo qualcuno che ci prenda per mano. Ricambiamo con l’entusiasmo, l’impegno, i soldi delle nostre borse di studio

Quindi, per esempio, un aiuto non solo finanziario per trovare un appartamento, anche insieme ad altri studenti: non conosciamo la lingua, gli annunci immobiliari non li capiamo, ci sono sempre delle trappole per lo straniero inesperto, vorremmo poter contare sull’esperienza di chi in quel Paese, in quella città ci è nato e la conosce. Poi degli sconti sostanziosi per le mense, sempre che ce ne siano. Poi una guida umana, non digitale, che ci spieghi come funziona l’università: dove ci si iscrive, dove sono le aule, quando ricevono i docenti, come si fa a registrarsi ai corsi e agli esami, dove sono le biblioteche, come si fa a prendere i libri in prestito. Una guida umana simpatica, anche affettuosa, perché anche di quello si ha bisogno quando ci si trova da soli in un Paese straniero, a vent’anni (ma anche dopo no?). Poi una tessera per visite ai musei della città, della regione: non solo per risparmiare qualche euro (anche), ma perché così capiamo subito quali sono le cose interessanti da vedere. E sconti per il cinema, il teatro, i concerti. Siamo stranieri in un Paese straniero, siamo giovani e squattrinati: vogliamo qualcuno che ci prenda per mano. Ricambiamo con l’entusiasmo, l’impegno, i soldi delle nostre borse di studio che spendiamo in loco; ma soprattutto ricambieremo durante la vita, guadagnando al Paese che ci ha ospitato, all’università che ci ha ospitato, una buona reputazione, mantenendo i contatti, lavorando con le persone che abbiamo incontrato durante il nostro semestre o anno o biennio di studio all’estero. Il famoso networking.

Perché tutto questo accada occorre che l’università che ci ospita sia pronta a soddisfare queste sensate richieste, ma direi che, in media (ci sono eccezioni, lo so), le università italiane non sono pronte, cioè non hanno ancora ben capito quanto sia importante accogliere decentemente (e innanzitutto, ripeto: gentilmente) gli studenti che vengono dall’estero, e perciò non si sono dotate di strutture adeguate, o se queste strutture ci sono (e quasi sempre ci sono, c’è sempre un welcome office per gli studenti stranieri) non funzionano come dovrebbero.

Le università italiane non sono pronte, cioè non hanno ancora ben capito quanto sia importante accogliere decentemente (e innanzitutto, ripeto: gentilmente) gli studenti che vengono dall’estero

Parlo per esperienza. L’anno scorso tre ventenni asiatici che conosco sono venuti a studiare in una città del centro Italia. Il loro inglese era incerto, il loro italiano incertissimo. Nessuno li ha aiutati a organizzare il loro viaggio, il loro soggiorno; nessuno, naturalmente, li aspettava all’aeroporto, nessuno li aspettava alla stazione, nessuno li aveva veramente aiutati nella ricerca di una casa (aiutare veramente non vuol dire passare un link a Immobiliare.it): lo so perché la casa gliel’ho trovata io, grazie alla cortesia di certi amici. La loro borsa mensile ammontava a circa 400 euro, che è ovviamente una vergogna, nonché il modo migliore per garantire che solo i benestanti possano fare un’esperienza di studio all’estero. Il test d’ingresso costava 30 euro: nessuno gli ha spiegato dove e come pagarlo (spiegare vuol dire: accompagnarli alla banca; o meglio, permettergli di pagarlo allo sportello dell’università – ma poi, santocielo, l’università di X ha davvero bisogno di quei 30 euro?). Per pagarsi il soggiorno hanno dovuto accettare lavoretti in nero (i contratti per i 150 ore iniziano solo dal secondo anno, e del resto loro non conoscono abbastanza l’italiano per potersi candidare), hanno dovuto dividere la casa con persone poco raccomandabili, le quali hanno provocato infiniti problemi: perché nell’essere giovani stranieri è compresa anche l’incapacità di capire alla voce o all’aspetto chi è un mascalzone. Eccetera.

Ora, è un caso, e non è detto che le cose vadano sempre così male. Ma – e ripeto che parlo per esperienza, e dopo aver parlato con parecchi studenti stranieri – soprattutto nei nostri grandi atenei gli studenti incoming sono lasciati troppo spesso da soli, e quella che con poca spesa potrebbe, dovrebbe essere un’esperienza memorabile diventa uno slalom defatigante tra affitti, bollette, uffici incomprensibili, piadinerie esose e anomia. Ripeto: con poca spesa, con una frazione del denaro che all’università spendiamo per insulse iniziative di facciata, o per congressi non proprio imprescindibili. Ecco un buon parametro per la distribuzione dei “fondi d’eccellenza”: il modo in cui i vari atenei trattano gli studenti stranieri. Ed ecco un buon modo per adoperarli, questi fondi: per trattarli meglio.