Nelle settimane precedenti il voto del 25 settembre 2022, gli ascolti della Rai, nonostante le ottime performance delle partite delle squadre nazionali nei cosiddetti sport “minori” – nuoto, atletica, pallavolo, basket –, sono stati superati dalle reti Mediaset. Un fatto inusuale, che peraltro si riscontra nelle settimane successive. Con questo non si vuole insinuare, seppur qualche dubbio rimane, che ciò derivi da scelte premeditate in funzione elettorale, come se la Rai avesse di proposito tirato il “freno” della programmazione e Mediaset l’acceleratore, anche perché il peso della Tv sul pubblico è diminuito, a vantaggio dei social, per il calo continuo del pubblico televisivo (-11% di telespettatori medi giornalieri negli ultimi dieci anni). Questo per ricordare che con il nuovo governo le questioni dell’annoso conflitto d’interessi e dell’assetto della Rai ritorneranno centrali.
Esistono due Rai, una identificata con l’intrattenimento e l’informazione, poi c’è l’azienda Rai: le attenzioni maggiori sono ovviamente rivolte alla prima, mentre la seconda è considerata materia per gli esperti. Bisogna considerare che l’azienda-Rai, cioè la sua situazione economico-finanziaria e la sua struttura organizzativa, condiziona la qualità della comunicazione. Siccome la qualità lascia da tempo a desiderare (esclusi diversi programmi di Raitre, le fiction, le inchieste, i documentari), e ciò avviene a prescindere dal board che governa la Rai, fa supporre che la responsabilità derivi anche dalle sue difficoltà d’impresa. Se la Rai fosse autonoma finanziariamente e meno dipendente dalla politica e dai potentati esterni (i procuratori delle star, i produttori), è probabile che anche la programmazione migliorerebbe.
Come sta la Rai? Non bene, per condizionamenti sia esterni sia interni.
Vi sono all’orizzonte due eventi che potrebbero peggiorare la sua situazione già precaria. Il sistema di riscossione del canone basato sul contratto dell’energia elettrica, sistema introdotto nel 2015 e che aveva azzerato l’elevata evasione che c’era prima, è stato di fatto soppresso dalla legislazione europea (che vieta l’inserimento di altri oneri nelle bollette dell’energia elettrica). Dovesse ritornare il vecchio modello, basato su controlli dell’evasione molto labili (anche perché è difficoltoso l’accertamento), si rischia che l’evasione della tassa-canone ritorni a livelli pre-riforma e che alla Rai vengano a mancare il 20-25% circa dei ricavi da canone (su un totale di 1.820 milioni). C’è anche l’ipotesi della riduzione degli affollamenti pubblicitari, provvedimento che porterebbe una contrazione di circa 100 milioni dei ricavi da pubblicità (determinando un indiretto vantaggio per Mediaset). Se le due ipotesi si dovessero concretizzare, si creerebbe per la Rai una situazione “fallimentare”, si replicherebbe la vicenda Alitalia. Dubito però che ciò si possa verificare. È molto probabile che verrà in soccorso la nuova maggioranza parlamentare: come sempre accade, in campagna elettorale l’opposizione chiede, per esempio, la privatizzazione della Rai o l’abolizione del canone di abbonamento, quando poi diventa maggioranza sostiene e aiuta la Rai per ottenere in cambio il supporto mediatico (le file alle mense della Caritas si vedranno o non si vedranno nei telegiornali secondo le convenienze della maggioranza politica). Esiste un’altra “rete protettiva” per la Rai, stranamente derivante dal conflitto d’interessi: a Mediaset interessa avere sempre la Rai come diretta concorrente in quanto solo così si giustifica almeno formalmente il duopolio. Per cui si ritiene che il nuovo governo troverà soluzioni sulle due questioni sopra citate che permetteranno alla Rai di sopravvivere, mantenendo però sempre la sua abituale condizione, mai “forte” e “autonoma” ma nemmeno in uno stato prefallimentare.
È la stessa Rai a manifestare gravi lacune gestionali. Sono molti, per esempio, a mettere in dubbio l’efficacia del nuovo modello organizzativo scelto dall’attuale board della Rai e recepito dal precedente vertice
Al di là dei fatti contingenti sopra elencati, c’è da ricordare che è la stessa Rai a manifestare gravi lacune gestionali. Sono molti, per esempio, a mettere in dubbio l’efficacia del nuovo modello organizzativo scelto dall’attuale board della Rai e recepito dal precedente vertice. Con il nuovo modello si passa da un’organizzazione verticale dell’offerta editoriale a una orizzontale: sono state cioè create diverse direzioni per le varie offerte editoriali delle reti (l’intrattenimento serale e quello pomeridiano, i programmi per i bambini, l’approfondimento, i documentari) che si vanno ad aggiungere a quelle già in essere e legate a programmi molto specifici, come l’informazione, la fiction e lo sport. Queste direzioni operano per tutte le reti, mentre la direzione della stessa rete viene depotenziata e finisce per svolgere funzioni quasi notarili. Questa scelta ha una sua ragion d’essere perché si va sempre più verso una iperspecializzazione dei vari generi di programmi. Quindi la soluzione potrebbe far lievitare la qualità dei programmi. Vi sono però serie controindicazioni.
Con il nuovo modello aumentano le direzioni, e quindi i costi del personale e si accentua la deresponsabilizzazione, un “male” antico della Rai, dove le responsabilità sono sempre difficili da individuare. Il nuovo modello, che ha moltiplicato i primi riporti all’Amministratore delegato (più di 60), determina inoltre che l’influenza della politica e dei procuratori, che già gestiscono il palinsesto serale, non può che aumentare. L’autonomia dell’azienda viene sempre meno, e sorge anche il dubbio se l’azienda voglia veramente essere autonoma, per esempio dalla politica o non trovi più “conveniente” assoggettarsi ad essa per ottenere vantaggi e assegnare ad essa le colpe del suo malfunzionamento.
Sui limiti del nuovo modello organizzativo c’è un’altra considerazione da fare. Ogni mezzo di comunicazione ha una propria “identità”. Per lo stesso motivo per cui sono in molti a non comprare un altro quotidiano quando all’edicola non trovano il proprio, così ognuno quando accende il televisore sceglie inizialmente il “suo” canale preferito. Fra il mezzo di comunicazione e il pubblico si crea nei fatti una sorta di “affezione”; la si chiami identità oppure linea editoriale ma di questo si tratta: il pubblico sceglie il mezzo a prescindere dai suoi contenuti, che peraltro conoscerà solo dopo averli “consumati” (nella teoria economica i prodotti editoriali si chiamano non a caso “beni esperienza”, cioè beni dei quali non si conoscono le peculiarità prima del loro effettivo consumo). Ebbene, la conoscenza di questo legame fra mezzo e pubblico non può che essere del responsabile del mezzo stesso, ed è difficile immaginare che più persone, i responsabili delle singole aree, possano avere le stesse conoscenze. Sarebbe come se il direttore di un giornale fosse sostituito da tanti direttori responsabili delle varie aree tematiche, politica interna, politica estera, cronaca, cultura, spettacolo e così via. Invece di un giornale che coerentemente, dalla prima all’ultima pagina, segue una comune linea editoriale, si avrebbe un giornale disarmonico che difficilmente incontrerebbe il favore del pubblico. I cali dell’ascolto della Rai potrebbero essere determinati proprio dal malfunzionamento del nuovo modello organizzativo.
Fra il mezzo di comunicazione e il pubblico si crea nei fatti una sorta di “affezione”; la si chiami identità oppure linea editoriale ma di questo si tratta: il pubblico sceglie il mezzo a prescindere dai suoi contenuti, che peraltro conoscerà solo dopo averli “consumati”
Un’ultima considerazione riguardante la società RaiWay, la società delle “torri” adibita a svolgere, grazie a 2.300 siti distribuiti nel territorio, i servizi di diffusione e trasmissione dei segnali radiofonici e televisivi verso gli utenti finali. Se il segnale della Rai arriva via etere in tutte le case è merito di questa società (le eventuali disfunzioni riguardano eventualmente l’introduzione di nuovi standard del digitale terrestre, com’è accaduto di recente con il Dvb-T2). Questa società fu quotata in Borsa nel 2014 e il collocamento riguardava solo il 35% del capitale. La scelta della Rai di cedere una quota minoritaria di un proprio “gioiello” si giustificò, come si disse allora, per permettere alla Rai di “fare cassa”; infatti la plusvalenza per la casa madre ammontò a 228 milioni. D’altronde la Rai aveva urgenza di liquidità per effettuare i rilevanti investimenti per la digitalizzazione degli apparati produttivi. A posteriori, il giudizio su quella scelta è positivo: RaiWay, come dimostrano le cifre del bilancio, è diventata una realtà aziendale di prim’ordine (evidentemente l’aria del mercato, una volta liberatasi dalla “burocratica” casa madre Rai, le ha fatto bene).
Nel 2015 c’è stata, a sorpresa, una richiesta dell’altra importante società delle Torri presente in Italia, EiTowers di acquisire quote consistenti di RaiWay. La vicenda creò polemiche a non finire in quanto EiTowers è la società di trasmissione di Mediaset (la cui partecipazione è adesso pari al 40%). La vicenda cadde nel nulla anche per le prese di posizione avverse dell’Autorità per le Comunicazioni e dell’Antitrust.
Arriviamo a febbraio 2022: con un decreto del Presidente del consiglio si è stabilito che la Rai può ridurre la propria partecipazione nel capitale di RaiWay fino al limite del 30% (rispetto al precedente 50%, attualmente la Rai detiene il 65% delle azioni) per operazioni straordinarie come fusioni e cessioni. Subito si è riacceso l’interesse della fusione fra RaiWay ed EiTowers e questa volta le polemiche sono ridotte e le possibilità che si arrivi a un approdo positivo sono concrete. Le due aziende si assomigliano, per ammontare di ricavi e per numero di dipendenti, operano nello stesso perimetro di mercato, per cui la fusione sarebbe una scelta condivisibile: i problemi potrebbero sorgere sulle cifre e sulle modalità dell’approdo finale.
Facciamo un passo indietro nel tempo per vedere come RaiWay fu oggetto di un vero e proprio scontro politico. Negli anni 2000 il vertice della Rai decise di vendere il 49% della società alla multinazionale americana Crown Castle. Nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2001 il centro-destra manifestò la sua opposizione al progetto. Con la nascita del secondo governo Berlusconi, il nuovo ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, bloccò la cessione motivandola con la perdita di un importante asset nazionale. Ricordo che il personale della Rai fu soddisfatto della decisione del governo.
Sono diversi i problemi della Rai. Le attenzioni maggiori da parte della nuova maggioranza saranno concentrate, com’è sempre accaduto, sugli aspetti editoriali, nell’illusione che, per esempio, avere il sostegno del Tg1 si trasformi nel consenso della pubblica opinione alle politiche governative (ricordo che nella “seconda Repubblica” i partiti che hanno “governato” la Rai hanno sempre perso le elezioni). È l’azienda-Rai ad avere bisogno delle maggiori attenzioni, di cure particolari, saranno queste scelte a smentire l’opinione diffusa che la Rai non sia riformabile, a prescindere dalle maggioranze parlamentari.
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