Quando a Jonas Salk, il medico statunitense che mise a punto il primo vaccino contro la poliomielite, chiesero chi ne possedesse il brevetto, lui con ironia rispose «Si può forse brevettare il sole?».

Era il 1955, la poliomielite era una delle malattie più spaventose e letali e la domanda retorica posta dallo scienziato era figlia di un’idea di salute pubblica che purtoppo non esiste più. Oggi, stiamo fronteggiando la crisi sanitaria legata al virus Sars-CoV-2, che in un anno ha fatto quasi 2 milioni e 400 mila vittime in tutto il mondo, di cui più di 91 mila solo in Italia. Fin dall’inizio della pandemia le speranze per tornare ad abbracciarsi erano riposte nello sviluppo di un vaccino sicuro ed efficace, una sorta di sacro graal della salute pubblica. Nonostante i vaccini siano una risorsa fondamentale (secondi sola all’acqua potabile nel ridurre la mortalità della popolazione mondiale), oggi sono tecnologie legate più a logiche di mercato, ideologie e interessi geopolitici che ai bisogni dei sistemi sanitari.

La narrativa neoliberista propone l’intervento del settore privato come l’inevitabile assicurazione per continue innovazioni. Eppure durante la pandemia le ombre di questo sistema sono emerse con forza. Per l’alto costo dei vaccini sviluppati e il veloce approvvigionamento dei Paesi in grado di acquistarli, per esempio, più di 85 Paesi in via di sviluppo non avranno accesso al vaccino prima del 2023. L’economista indiana Jayati Gosh parla di «apartheid vaccinale». E persino l’Ue, il reparto ricco del mondo, è stata lasciata sprovvista delle dosi di vaccini che aveva pre-acquistato, perché aveva negoziato preventivamente prezzi più bassi di quelli pagati poi da altri Stati. Se i vaccini sono strumenti così fondamentali per la salute collettiva, come e perché sono stati delegati completamente al settore privato?

All’inizio del Novecento, in seguito ai successi della nuova scienza batteriologica in grado di realizzare sieri per proteggere dal vaiolo prima e dalla difterite poi, gli Stati iniziarono ad avere bisogno di istituti per la ricerca e per lo sviluppo dei vaccini.

In alcuni Paesi queste esigenze vennero soddisfatte da privati, come per esempio l’istituto Sclavo a Siena, mentre in altri, come Danimarca e Svezia, nacquero istituti pubblici collegati ai ministeri della Salute o ai laboratori municipali di sanità pubblica. In Europa, negli anni Sessanta e Settanta, produttori di vaccini pubblici e privati collaboravano, scambiando sapere ed expertise, legati da uno sforzo comune per la salvaguardia della salute pubblica. A partire dagli anni Ottanta le cose iniziarono a cambiare. Spinte economiche, politiche e tecnologiche iniziarono a erodere lentamente lo spazio del settore pubblico e tra gli anni Novanta e Duemila i pochi istituti pubblici vennero smantellati.

Nel 1993 il reparto di produzione del laboratorio svedese fu separato dalle altre funzioni dell'Istituto e trasformato in una società privata, acquisita prima da una società biotecnologica olandese e poi dal gigante farmaceutico Johnson & Johnson. Nel 2009 il governo olandese decise di interrompere la produzione diretta di vaccini, scorporò l’istituto e pochi anni dopo gli impianti di produzione vennero venduti a una azienda privata indiana, mentre ora la vendita dell’ultimo reparto è materia di dibattito. Oggi, in Europa occidentale non esiste più alcun istituto pubblico (al contrario dei Paesi post-socialisti dell’Europa centro-orientale) e la spiegazione più di frequente è di natura finanziaria. Come per esempio ha dichiarato l’allora ministro della Salute olandese, Abraham Klink, sottolineando che i costi di produzione di vaccini per la piccola popolazione olandese (circa 180.000 nascite all'anno) erano eccessivi da sostenere.

In realtà, la ragione economica è solo parte di una trama più complessa. Se seguiamo gli sviluppi di scienza e tecnologia da un lato e i cambiamenti ideologici dall’altro, emerge uno scenario in cui si intrecciano molteplici dinamiche. Negli anni Sessanta e Settanta le tecnologie per sviluppare i vaccini, usando metodi di attenuazione e inattivazione, richiedevano la capacità di conservare e gestire in sicurezza colture di patogeni pericolosi, rendendo indispensabili grandi e complessi laboratori. Negli anni Ottanta, le nuove tecniche di manipolazione del materiale genetico, insieme a una serie di politiche pubbliche implementate negli Stati Uniti, permisero a molti scienziati di abbandonare i laboratori universitari per aprire piccole compagnie biotecnologiche, il cui sapere iniziò a essere imbrigliato in reticoli sempre più fitti di brevetti. Come constatano due ricercatori dell’università di Berkeley, David Mowery e Valory Mitchell, mentre per sviluppare 27 nuovi vaccini nel 1983 era stato necessario acquisire due brevetti, solo un decennio dopo la SmithKline Beecham (ora Glakso Smith Klein) dovette raccogliere ben 14 brevetti per produrre e commercializzare un solo vaccino (contro l'epatite B ricombinante). La «conoscenza» e le relazioni cooperative inevitabili nella ricerca erano diventate «proprietà intellettuale». Limitando l’interesse pubblico a favore dei diritti individuali, il sapere scientifico non era più libero di essere scambiato e condiviso, e dunque sviluppato e adattato.

Da parte loro, i produttori di vaccini tradizionali (privati e pubblici) non avevano esperienza nelle nuove tecniche basate sulle biotecnologie. Le grandi case farmaceutiche iniziarono ad acquisire le nuove aziende con le competenze e i brevetti di cui avevano bisogno, e sempre più aziende si fusero, trasformando anche questo segmento del mercato in un campo oligopolistico transnazionale. Mentre gli istituti pubblici vennero simultaneamente esautorati, non potendo accedere al gioco tecno-finanziario del nuovo mercato dei brevetti, si diffuse l’idea che i produttori del settore pubblico non avessero più le risorse, l’autonomia da interferenze politiche e le competenze per produrre vaccini di buona qualità. E così il comparto farmaceutico-sanitario, con i suoi inevitabili intrecci con le reti pubbliche di ricerca, è stato ridisegnato dal neoliberismo in base a barriere e recinti che limitano la circolazione del sapere, riducendo la capacità di reazione del sistema alle emergenze reali, e il ceto politico smise di considerare la fornitura di strumenti essenziali per la salute pubblica, come i vaccini, una sua responsabilità diretta.

Se questa pandemia è un campanello d’allarme, e altre malattie zoonotiche si diffonderanno, è ancora più urgente rinegoziare la partecipazione pubblica nella produzione del sapere, dell’innovazione e degli strumenti della salute pubblica. I governi non possono più farsi trovare impreparati, né ritrovarsi ostaggio delle logiche di mercato del settore privato, dove le disuguaglianze nell’accesso a strumenti salva vita sono state considerate accettabili. Quali meccanismi e strutture consentiranno al meglio lo sviluppo e la produzione di strumenti salvavita per rispondere alle esigenze delle persone di tutto il mondo?