La vicenda delle statue coperte ha spazzato via qualsiasi altra considerazione di merito sulla storica visita del presidente iraniano Rohani. Potrebbe sembrare che parlarne ancora non serva granché. Ma al di là della sudditanza di Stato verso i potenti – ricordate quando concedemmo a Gheddafi vestali e tende, chiedendogli in cambio di garantirci di non incontrare mai un africano senza potere? – altri due italianissimi elementi caratterizzano questa vicenda divertente e drammatica, così come la commedia d’autore che ci ha meritatamente reso celebri nel mondo.
Primo elemento: il provincialismo. Siamo onesti: nell’inconscio italiano è ancora radicata l’idea che al di là del mare «culla della civiltà» le persone si spostino a dorso di cammello. È il pregiudizio che, con un libro colto e molto bello, Edward Said ha definito «orientalismo»: quel sedimentato bagaglio di credenze stereotipate che in Europa utilizziamo per elaborare la nostra immagine dell’Oriente. Il rapporto tra islam e modernità è certamente spinoso, ma presupporre che il presidente di un Paese erede della millenaria cultura persiana non possegga le categorie per collocare il linguaggio del Rinascimento italiano è assurdo oltre che – questo sì – offensivo. È vero, in Iran governa un regime dittatoriale su base islamiche, ma due iraniani su tre hanno meno di 35 anni, e forse è anche per questo che Rohani, o chi per lui, twitta e, soprattutto, va in giro per il mondo a concludere affari miliardari (e pare che nessuna delle due cose gliel’abbia insegnata Matteo Renzi).
Secondo elemento, a ben vedere più importante: il nostro profondo, radicato, talvolta inconscio, bigottismo. Come non cogliere, nella bizzarra profilassi degli strateghi del cerimoniale, una bacchettoneria del tutto italiana? Oltre a essere, e ad apparire, privi di spina dorsale, quel che è peggio è che nel tentativo di metterci nella testa del nostro ospite integralista, gli abbiamo attribuito in anticipo il nostro puritanesimo religioso. Altroché laicità e «valori occidentali». Di fronte alla quint’essenza storica potere – quello che interseca il secolare al celeste – ci siamo confermati per quello che siamo: dei campagnoli (magari senza più fede, ma comunque pieni di senso del peccato).
– Chi viene domani d'importante?
– Rohani.
– Chi?
– Quello col turbante.
– Ah, un religioso. Esco a comprare un paio di mutande.
Pare di sentirlo il dialogo tra i soliti ignoti. D’altronde, qualcosa di simile era già accaduto il giugno scorso a Torino, quando per la visita di Papa Francesco si arrivò a coprire i manifesti della mostra di Tamara de Lempicka. Ora, così com’è improbabile che Francesco si sarebbe lamentato dei poster, lo è altrettanto che Rohani avrebbe avuto da ridire sui putti – il fatto ch’egli abbia ringraziato per la «cortesia» non significa nulla, se non che siamo di fronte a un politico abile, capace di valorizzare la propria forza. Al di là della consueta sudditanza ai potenti, gli episodi combinati dimostrano che nemmeno noi siamo poi tanto sicuri dei «nostri valori».
L’unica vera conferma che si può trarre da quest’assurdo siparietto italo-iraniano non riguarda l’integralismo dell’Iran, ma il trittico del nostro carattere nazionale: debole con i forti, provinciale dinanzi al mondo, bigotto in chiave preventiva. Non abbiamo letto né leggeremo mai il Corano, ma di fronte alla religione l’unica cosa che – da «laici» – ci viene in mente è che la Bibbia comincia con una foglia di fico.
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