Se il sionismo si legittima attraverso le millenarie persecuzioni subite dagli ebrei, e nasce in un periodo in cui l’ideologia nazionalista si stava affermando, l’identità palestinese emerge in relazione alle lotte di liberazione anticoloniale e alla nascita dello Stato di Israele. Esposti alla violenza di altri Stati, in un mondo di Stati nazione, le comunità ebraiche e palestinesi, per proteggersi, hanno cercato di costituirsi come Stato nazione. Il conflitto e l’oppressione palestinese nascono così dalla condizione di essere “vittime delle vittime”, come scrisse Edward Said. L’istituzione di uno Stato per gli ebrei ha determinato l’esposizione dei palestinesi alla violenza di un movimento che voleva fondare uno Stato, e poi dello Stato stesso. In questo senso sembra che la possibilità dello Stato per gli uni coincida con l’impossibilità dello stesso per gli altri. Da qui la spirale inarrestabile di violenza. Nonché la possibilità che la fine del conflitto possa darsi solo in una coesistenza al di là dello Stato-nazione.
I sionismi: tra nazionalismo e colonialismo. Dopo la serie di attacchi lanciata da Hamas il 7 ottobre, costati la vita a più di 1.400 israeliani e lavoratori migranti, in larga parte civili, e la successiva punizione collettiva dispiegata dall’esercito israeliano, si è parlato di violenza anticoloniale. La categoria di colonialismo si è affermata in primo luogo all’interno di alcune rivendicazioni politiche e, in seguito, all’interno del dibattito pubblico. Bisogna quindi interrogarsi sulle premesse e sulle implicazioni di una simile valutazione.
Inquadrare Israele come Stato coloniale permette, secondo alcuni, di legittimare alcune forme di violenza – non certo quelle più efferate – in quanto forme di resistenza che aprano alla liberazione anticoloniale e nazionale. In quest’ottica, un popolo oppresso ha diritto di resistere e può esercitare quindi alcune forme di violenza. Stabilito questo, bisogna poi distinguere queste forme – ad esempio se gli obiettivi possano essere solo militari o anche civili, o ancora entrambi.
Ma, prima ancora di sollevare la questione sulla liceità della violenza, è l’inquadramento stesso del rapporto tra Israele e colonialismo a essere meno semplice di quanto possa sembrare. Così come quello tra sionismo, nazionalismo e pratica coloniale.
Il sionismo è stato un movimento dalla multiforme conformazione ideologica unito dall’obiettivo di dotare gli ebrei di uno Stato. Emerge nell’epoca dei nazionalismi, nella seconda metà dell’Ottocento. In quanto movimento nazionalista, in origine, il sionismo aveva tanto elementi socialisti, quanto coloniali – come vari altri movimenti nazionalisti. Di qui, il mito di “un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Gli ebrei erano i primi, i palestinesi i secondi. Su questo mito dell’ebreo colono, duro – modellato sull’eroe di Exodus di Leon Uris –, che non si sarebbe più fatto uccidere c’è una vasta letteratura (Philip Roth, ad esempio, ha scritto pagine interessanti in merito). Hannah Arendt si è dedicata a contestare questa prospettiva, avanzando un’idea di coesistenza tra ebrei e palestinesi, come d’altronde Martin Buber e il gruppo Brit Shalom, che pure era sionista. Questo solo per dire che sionismo e colonialismo si sovrappongono ma non coincidono.
In questo senso credo sia più corretto inquadrare il sionismo in termini di esigenza di uno Stato in un mondo moderno di Stati nazione. Il problema dello Stato fu un problema degli ebrei perseguitati per millenni, come lo fu più tardi anche delle popolazioni colonizzate. Fare questa valutazione non serve ai soli fini analitici ma ha importanti implicazioni per la fine dell’occupazione israeliana e l’apertura di un futuro di eguaglianza e giustizia tra palestinesi ed ebrei israeliani. Permette infatti di capire la condizione comune che li lega, che è tanto diasporica, quanto di necessità e impossibilità di uno Stato. Permette di riconoscere il peso tanto della Nakba, quanto dell’antisemitismo.
La violenza a cui i palestinesi sono sottoposti deriva dal non avere uno Stato. A sua volta, il bisogno degli ebrei di avere uno Stato deriva dal non averlo avuto prima
Il sionismo nacque in relazione al problema di non avere uno Stato, non avere una madrepatria, cosa che esponeva gli ebrei alla violenza altrui. Ciò significa che il problema di Israele e della Palestina è che, per come la politica si dà nel mondo moderno, per ora, e purtroppo, la protezione di un gruppo dalla violenza passa per l’edificazione di uno Stato nazione sovrano. In Israele/Palestina la violenza a cui i palestinesi sono sottoposti deriva dal non avere uno Stato. A sua volta, il bisogno degli ebrei di avere uno Stato deriva dal non averlo avuto prima.
I mali solitamente attribuiti al sionismo derivano in realtà più dal nazionalismo e dalla forma della sovranità che da altro. Ogni nazionalismo contiene un elemento razzista e quindi non può darsi senza di esso. Necessita di irrigidire un noi e costruire una differenza con l’altro interno ed esterno. Infatti, nessun popolo è essenzializzabile in tratti comuni, storici o culturali che siano, senza compiere astrazioni e operazioni di selezione arbitraria. In questo senso, come il nazionalismo in Italia o Europa è deprecabile, così lo è quello israeliano.
Alcuni dicono che il popolo ebraico non esiste. Ma lo stesso si potrebbe dire di ogni popolo, perché ogni identità collettiva, e ancora più ogni nazione, è frutto di un’invenzione, in un certo senso. La rivendicazione di un’identità, quando non ha fini essenzialmente razzisti, nasce solitamente a partire da un torto subito e in funzione della sua riparazione. Non esiste veramente alcun popolo e quindi gli ebrei non fanno eccezione, come non la fanno i palestinesi. Il surplus problematico dell’identità ebraica è che è legata a una religione millenaria e diasporica e ha una trasferibilità limitata rispetto a quella potenziale di una identità nazionale definita, ad esempio, in termini di requisiti di residenza, di acquisizione per nascita o di patriottismo democratico, ossia di formale identificazione con determinati valori. Tuttavia l’identità israeliana non coincide con quella ebraica, la eccede, come spiega anche l’autore de L’invenzione del popolo ebraico, Shlomo Sand, in un altro testo.
I palestinesi, oppressi dall’apartheid israeliano e vittime della Nakba e della progressiva espulsione dalla propria terra, non hanno uno Stato e hanno diritto, come molte collettività che desiderano avere una forma di autodeterminazione, ad avere finalmente una propria sovranità, pur con i problemi che da ciò conseguono.
Colonialismi. Anche rispetto al colonialismo bisogna usare il termine con una qualche cautela. Diverso è infatti parlare della nascita di Israele, nei suoi confini oggi internazionalmente riconosciuti, di successivi sviluppi quali l’occupazione dei Territori palestinesi a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967, ancora, dell’espansione delle colonie.
Israele è considerato da alcuni studiosi uno Stato di colonialismo di insediamento (settler colonialism). Questo lo rende più simile agli Stati Uniti e all’Australia rispetto alla colonizzazione europea dell’Africa, dell’Asia o del Sud America volta all’estrazione di risorse e alla sottomissione della popolazione a fini economici. Da questo punto di vista, se il movimento sionista che è sfociato nella costituzione dello Stato d’Israele è stato ed è un progetto coloniale, lo è nella misura in cui ha inteso e continua a insediare una popolazione in un territorio, anche con la violenza.
Ma, chiaramente, anche tra le colonie di insediamento ci sono differenze importanti. Per quanto fossero anche loro in fuga o deportati dall’Europa, gli europei che si sono insediati negli Stati Uniti o in Australia hanno una storia differente da quella degli ebrei. Non c’è alcuna madrepatria degli ebrei, essendo questi in fuga dall’Europa dove erano stati sterminati, e, più tardi dai Paesi arabi da cui vennero cacciati tra ‘48 e ‘67.
Bisogna quindi distinguere tra la genesi dello Stato e le forme di colonizzazione successive al ‘67. Dopo la Guerra dei sei giorni, Israele occupa Gerusalemme Est, la Cisgiordania (prima sotto il controllo della Giordania), il Golan (allora siriano), Gaza e il Sinai (fino ad allora egiziani) – Sinai che poi venne restituito all’Egitto con gli accordi di Camp David del 1979. Secondo il diritto internazionale, sancito anche attraverso risoluzioni delle Nazioni Unite, Israele occupa quelle terre. In questo senso si può parlare di colonialismo. Dopo gli Accordi di Oslo (1992-1993), la Cisgiordania viene divisa in tre aree (A, B e C): la popolazione civile, a parte nell’area gestita da Autorità nazionale palestinese – che comunque collabora con lo Stato israeliano –, è un’area co-gestita, secondo rapporti diseguali, da Anp e Israele (area B), e un’altra dalle forze militari israeliane (C). I coloni israeliani hanno una libertà di movimento negata ai residenti palestinesi. Il 60% della Cisgiordania è sotto controllo israeliano (area C), e tra area B e area A vivono 2,5 milioni di palestinesi.
Quindi, al di là della questione del settler colonialism relativo alla fondazione di Israele, in Palestina la questione del colonialismo si pone in relazione al tipo di rapporto tra forze militari e politiche israeliane e popolazione civile palestinese, dentro e fuori i confini del ‘48. L’apartheid si estende su tutto il territorio, in forme diverse, come detto da diverse organizzazioni per i diritti umani e ricerche accademiche. La Cisgiordania è segmentata in tre parti, con diritti differenti a seconda della identità ebraica o palestinese.
In Israele, gli israeliani non ebrei sono cittadini di serie B – in qualche modo con modalità affine a come lo sono i cittadini postcoloniali di seconda o terza generazione in Europa. I palestinesi che lavorano lì attraverso i permessi di lavoro sono come i migranti senza cittadinanza ma sono razzializzati e trattati come nemici in modo più diretto: la loro residenza e sicurezza è revocabile e costantemente in discussione. Il caso dei lavoratori gazawi in Israele espulsi e detenuti dopo il 7 ottobre lo mostra.
Gaza, anche dopo il ritiro dei coloni nel 2005, non ha sovranità dato che non controlla i suoi confini terrestri, aerei e marittimi
Gaza, anche dopo il ritiro dei coloni nel 2005, non ha sovranità dato che non controlla i suoi confini terrestri, aerei e marittimi. La popolazione colonizzata è costantemente esposta a un mix di violenza legale ed extralegale – ed è in questa zona indeterminata che, tradizionalmente, opera la polizia. La detenzione amministrativa (ossia senza processo ordinario) fa parte di questa forma di governo coloniale. Forma di governo coloniale che vediamo anche in Europa, tanto nella gestione delle nostre frontiere che gerarchizzano il valore della vita su linee razziali e creando zone di indistinzione tra diritto e violenza, quanto nell’uso delle leggi d’emergenza anti-terrorismo contro specifici settori delle proprie società.
Il tema è quello dell’eccezione razziale e coloniale: esseri umani trattati con un surplus di violenza legalizzata, oltre che sociale, in virtù della loro identità.
Il problema dello Stato-nazione. Che fare di un contesto simile a 75 anni dalla fondazione di Israele e della Nakba? Che tipo di soluzione politica pensare? A lungo, il dibattito mainstream ha pensato alla soluzione della separazione in due Stati, uno per gli ebrei e uno per i palestinesi, con la questione di Gerusalemme da dividere. Ora questa ipotesi perde supporto perché il processo di Olso è fallito, la colonizzazione della Cisgiordania rende politicamente difficile creare una sovranità palestinese lì, e per la questione della mancata continuità territoriale con Gaza. Non aiuta neanche la trasformazione avvenuta nella società palestinese, dove, dopo la sconfitta della sinistra nazionalista, socialista o marxista palestinese, il fondamentalismo di Hamas prende forza non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. L’Anp di Abu Mazen è infatti profondamente screditata. E il cosiddetto Mandela palestinese, Marwan Barghouti, già leader della seconda Intifada, forse rimane in carcere anche perché nessuno tra i dirigenti palestinesi vuole che sia libero.
Anche l’ipotesi dello Stato unico, con eguali diritti per ebrei e palestinesi – e che risolverebbe anche la questione del diritto al ritorno per i profughi palestinesi – presenta molteplici ostacoli. 75 anni di violenze e rivendicazioni speculari e, da ultime, la cesura del 7 ottobre e della punizione collettiva della popolazione palestinese rendono davvero difficile pensare la coesistenza sulla stessa terra. Infine, c’è chi pensa a uno Stato federale o a una confederazione.
Si tratta di questioni né oziose, né accademiche. Dire “Palestine will be free, from the river to the sea” o essere antisionisti è interpretabile in modi diversi. Alcuni sono minacciosi e antisemiti, altri pacifici e volti a realizzare un’eguaglianza tra ebrei e palestinesi – ad esempio, in uno Stato bi-nazionale, come nel progetto di Moustafa Barghouti e Edward Said, o come propone Judith Butler. Una posizione antisionista e antinazionalista è coerente, mentre una antisionista e nazionalista no: porta a chiedersi perché il sionismo, ossia il nazionalismo degli ebrei, non possa essere un nazionalismo come altri.
Desiderare che i palestinesi possano auto-determinarsi come tutti gli altri gruppi che hanno voluto farlo, implica chiedersi, una volta che ciò sia realizzato, cosa avverrà in seguito dati i problemi che la sovranità nazionale pone una volta che viene edificata. Infatti, le nazioni postcoloniali, come spiegano Mahmood Mamdani o Etienne Balibar, hanno riprodotto la violenza che volevano interrompere. Sia per l’uso di tecniche di governo ereditate dai governi coloniali, sia perché quando una popolazione si fa Stato nazione riproduce una minoranza interna che discrimina e opprime.
In questo senso, se Israele è uno Stato illegittimo bisognerebbe chiedersi quale sia e se esista uno Stato legittimo, e, infine, se sia possibile pensare una politica oltre gli Stati nazione. Chiaramente, per i palestinesi non è ancora pensabile: senza Stato, non si dà protezione per una popolazione. La domanda che viene in seguito è se sia possibile, e attraverso quali soggetti politici e sociali, creare uno Stato nazione fuori dalle dinamiche di violenza che segnano il percorso di ogni Stato nazione – pur con diversa intensità.
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