Chi, poniamo il 24 marzo, ha consultato i siti dei principali quotidiani italiani ha trovato, oltre purtroppo a qualche aggiornamento sulla guerra in Ucraina, soprattutto notizie di cronaca, qualche pezzo di costume, la querelle sugli insetti nel cibo e poco altro. Eppure, il 20 marzo, dall'Onu è suonato l’ennesimo allarme sullo stato di salute del nostro pianeta e le responsabilità dell’uomo. Nelle parole del segretario generale Guterres, «l’umanità deve affrontare una verità difficile: il cambiamento climatico sta rendendo il nostro pianeta inabitabile [...] Mentre i Paesi sfrecciano oltre il limite di +1,5 gradi, il cambiamento climatico sta intensificando le ondate di caldo, la siccità, le inondazioni, gli incendi e le carestie, minacciando al contempo di sommergere i Paesi e le città più bassi sul livello del mare e di portare più specie all’estinzione».
Parole che hanno, purtroppo, sempre più riscontri. Qui in Italia siamo, a metà aprile, in crisi idrica conclamata in alcune importanti regioni subalpine, mentre si vocifera di acquedotti da riparare, mare da dissalare, bacini da scavare, porte vinciane da chiudere: il tutto molto a casaccio, sulla spinta di qualche servizio televisivo o della giornata mondiale dell'acqua. Il deputato Angelo Bonelli porta in Parlamento sassi che ha raccolto passeggiando nel letto del fiume Adige, dove in marzo di solito ci sono due metri d'acqua; ma il capo del governo ridacchia e il tutto degenera in polemica e strilli.
Su scala più ampia, l'estate scorsa abbiamo assistito sgomenti alla più grande alluvione mai registrata in Pakistan, con oltre 1.700 morti, 2 milioni di sfollati e immense superfici agricole distrutte (85 mila chilometri quadrati, una superficie pari all’intera Val Padana). Nello stesso periodo in Cina si verificava la più forte ondata di calore forse mai accaduta al mondo, con livelli record di temperatura (fino a 45 gradi) e un'estrema siccità sul colossale bacino dello Yangtze. Anche in Italia il 2022 è stato di gran lunga l'anno più caldo mai registrato, confermando una tendenza inquietante che si è innescata negli anni Ottanta del secolo scorso, tendenza notevolmente peggiorata con il nuovo secolo.
Tutto ciò detto, quali sarebbero le cose da fare per impedire che la situazione degeneri diventando del tutto irreversibile, ossia rendendo il nostro pianeta (e quindi anche l'Italia) inabitabile? Gli scienziati sanno che questa crisi l'hanno innescata gli enormi consumi di energia fossile che soprattutto dal secondo dopoguerra accompagnano la vertiginosa crescita economica del pianeta. Bruciare carbone, petrolio e gas genera infatti i tre quarti delle emissioni climalteranti. Gli scienziati sanno che queste emissioni devono smettere di crescere, anzi, meglio, devono calare subito e vertiginosamente. Tuttavia ciò non accade. Si pensi che la pandemia del 2020 ha generato una diminuzione minima delle emissioni di CO2, subito recuperata a partire dall’anno seguente.
Queste emissioni devono smettere di crescere, anzi, meglio, devono calare subito e vertiginosamente. Tuttavia ciò non accade
Come dovrebbe ormai essere noto ai più, in base a dati certi e non a illazioni, per interrompere la corsa alle emissioni e al riscaldamento globale la chiave sta nel ricorso all'energia rinnovabile, in particolare solare ed eolico. Così come emerge esplicitamente dal testo (e dagli apparati grafici che lo accompagnano) del rapporto di sintesi sul clima redatto da Ipcc (il comitato scientifico Onu da oltre trent'anni studia e prevede i cambiamenti climatici), diffuso da Guterres. Ma, come evidenzia il Rapporto Irena appena diffuso (aprile 2023) occorrono gigantesche installazioni che consentano di abbattere l’uso dei fossili nella generazione elettrica, responsabile da sola di un quarto delle emissioni, e di sostituire il petrolio utilizzato per i mezzi di trasporto, responsabile di un altro quarto abbondante delle emissioni, con la corrente rinnovabile a emissioni zero.
Al tempo stesso, andrebbero però interrotti i disboscamenti selvaggi che hanno caratterizzato gli ultimi trent’anni in Amazzonia e in Indonesia, solo per segnalare i casi più gravi, mentre l’agricoltura dovrebbe applicarsi per assorbire carbonio invece di emetterlo: agricoltura conservativa e non-lavorazione dei suoli sono le parole chiave della nuova agronomia amica del clima.
Eppure da dieci anni in Italia le rinnovabili sono quasi al palo: 3 mila megawatt di nuovo fotovoltaico installati nel 2022, mentre ce ne occorrerebbero almeno 10 mila ogni anno per centrare gli obiettivi europei, che prevedono una quota enorme (42,5%) di energia rinnovabile al 2030, con obiettivi specifici anche per abitazioni, industrie e trasporti (secondo quanto previsto dalla Direttiva Red III). Tutto ciò mentre ogni progetto di nuovo impianto eolico incontra tutti i possibili tipi di opposizione (a Taranto, dopo ben 14 anni dalla proposta iniziale, l'anno scorso è stato finalmente costruito il primo impianto eolico marino italiano).
L'invasione dell'Ucraina ha messo a nudo la colossale dipendenza del nostro Paese dalla Russia per quanto riguarda l'energia, non solo nel gas ma anche per carbone e petrolio. La reazione del governo Draghi non è stata una potente virata verso le rinnovabili e l’elettrico, come aveva suggerito il gruppo scientifico Energia per l’Italia, bensì la corsa a cercare altro gas in giro per l'Africa e il resto del mondo (nuovi giacimenti, gasdotti e gas liquefatto da rigassificare nei nostri porti) e l’impiego massiccio di carbone e olio combustibile nella produzione elettrica, con conseguente aumento delle emissioni di CO2.
La corsa al gas è continuata anche con il governo Meloni, che peraltro si è opposto anche alle proposte europee di abolizione dei motori a scoppio dal 2035. Il passaggio ai motori elettrici è naturalmente ineluttabile e cruciale per ottenere l'abbattimento delle emissioni nei trasporti, che costituiscono un quarto del totale. E anche per migliorare la qualità dell'aria che respiriamo, e la salute di conseguenza, come dimostrano recenti analisi scientifiche che riguardano la California, dove l’elettrico circola da almeno una decina di anni.
Sul clima le informazioni arrivano solo di tanto in tanto, impacchettate in complessi rapporti tecnici che danno luogo a una breve, ed effimera, ondata di commenti
Insomma, riprendendo il messaggio dell’Onu e parafrasandolo: se non cambiamo tutto oggi, ci giochiamo tutto domani, e dobbiamo fare prestissimo. E allora come mai un simile allarme, che imporrebbe l’attivazione di uno stato di crisi, non è stato raccolto dai principali organi di informazione italiani? La questione riguarda la forma e il metodo con cui vengono resi pubblici dati e indicatori che riguardano il clima. Se ci interessiamo di sport, ogni giorno sono disponibili le classifiche dei vari tornei e informazioni aggiornatissime sulle squadre e gli atleti; se ci occupiamo di risparmio e finanza troviamo ovunque i valori di borsa e le quotazioni delle materie prime. Invece per il clima (e in generale per l’ambiente) le informazioni arrivano solo di tanto in tanto, impacchettate in complessi rapporti tecnici che danno luogo a una breve ondata di pezzi giornalistici che poi si arenano e scompaiono sotto la spinta di fatti di attualità che riempiono giornali e siti web (sulla crisi climatica nei media italiani si può leggere questo resoconto basato su dati dell'Osservatorio di Pavia). Ciò accade in particolare da quando è attivo l'Ipcc, struttura scientifica cooperativa globale sotto l’egida dell’Onu, che appunto produce con solenne lentezza corposi rapporti tecnici ogni 5 o 6 anni, ma che non eroga alcunché di simile a un indicatore aggiornato con continuità, che dica ogni giorno ai media dove stiamo andando e quanto siamo distanti dall’obiettivo, possibilmente disaggregando il dato per nazioni e settori.
Tentativi di fornire informazioni aggiornate con un certa continuità ci sono: ad esempio il sito www.climateactiontracker.org fornisce una stima del riscaldamento prevedibile in base alle azioni positive effettivamente in corso nel mondo (non ci sono dati per l’Italia perché il sito analizza tutta l’Unione europea come un solo blocco). Mentre per quanto attiene ai danni causati dal nuovo clima si può fare riferimento al Global climate risk index che Germanwatch aggiorna una volta l’anno. Questa istituzione aggiorna anche ogni anno il Climate change performance index (per l’Italia https://ccpi.org/country/ita/). Così come una volta sola ogni anno escono i dati italiani di Ispra (Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale) sia sul clima sia sulle emissioni.
Nel corso del mio lavoro, molti anni fa avevo sviluppato personalmente un indicatore termico basato sulle anomalie di caldo e freddo registrate ogni giorno dalla rete Arpae: l’indicatore forniva continuamente l’evoluzione termica prevedibile della regione Emilia-Romagna fino a fine secolo. Purtroppo, al di là di alcuni riscontri tecnici positivi, il calcolo non aveva trovato interesse mediatico ed è stato sospeso. Sul sito Arpae.it si possono comunque verificare ogni giorno le anomalie termiche e pluviometriche in corso per l’Emilia-Romagna (temi ambientali “Clima” e “Siccità e desertificazione”) e anche il livello della portata fluviale nel Po, ma non mi sembra di aver notato un impatto significativo di questi indicatori nemmeno sui media locali (in sostanza o sono dati ignoti ai media o risultano incomprensibili).
Il problema maggiore che abbiamo – la crisi climatica globale e la necessaria gigantesca transizione energetica – ha dunque a sua volta un grosso problema di comunicazione e tende a scomparire dall’attenzione pubblica anche a causa della periodicità saltuaria delle informazioni che lo riguardano, e probabilmente anche a causa dell’assenza nel nostro Paese di una solida tradizione di giornalismo basato sui dati. Sarebbe il caso di metterci mano, magari in fretta, prima della prossima, inevitabile distrazione di massa.
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