La politica torna a parlare di diritto alla cittadinanza. Lo fa per l’ennesima volta nel tentativo di modificare una legge risalente al 1992 e fondata sullo ius sanguinis (diritto di sangue), che fa derivare la cittadinanza da quella dei genitori e degli antenati. Ad oggi lo Stato italiano riconosce come suo cittadino chiunque abbia almeno un genitore italiano, senza distinzione tra chi nasce in Italia e chi nasce all’estero. I cittadini stranieri residenti in Italia, invece, possono diventare cittadini italiani solo per naturalizzazione, dopo dieci anni di residenza legale, o per matrimonio (anche in quest’ultimo caso ci vogliono diversi anni, soprattutto se il richiedente non risiede in Italia).
La legge del 1992 nasce per la verità già un po’ anacronistica, con l’obiettivo specifico di rafforzare il ruolo politico degli italiani all’estero, ovvero della discendenza degli emigrati italiani, e trova le sue fondamenta nel lungo passato di emigrazione che il nostro Paese ha vissuto.
Dal 1992 ad oggi, come è ben evidente, il contesto è assai modificato. L’Italia si è via via trasformata da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione, tanto che attualmente le persone di origine straniera residenti in Italia sono più di cinque milioni, l’8,7% della popolazione. Tra loro, 1,3 milioni sono i minori nati e cresciuti in Italia da genitori non italiani. In base alla legge attualmente in vigore, questi figli mantengono la cittadinanza dei genitori e possono diventare cittadini italiani solo dopo aver compiuto diciotto anni, a patto che ne facciano domanda prima del compimento del diciannovesimo e che siano in grado di dimostrare di avere “legalmente e ininterrottamente” risieduto in Italia fino a quel momento. Stando così le cose più di un milione di giovani continuano ad essere considerati stranieri pur avendo trascorso tutta la loro vita in Italia: ospiti potenzialmente espellibili, ad esempio, se i genitori perdendo il lavoro perdono il diritto a risiedere sul territorio.
Nel tentativo di modificare una legge incapace di rispondere alle necessità reali del Paese, nel 2011 una ventina di associazioni lanciarono la campagna “L’Italia sono anch’io”, che portò in un anno alla raccolta di più di duecento mila firme e alla presentazione in Parlamento di una legge di iniziativa popolare sulla riforma della cittadinanza. Nell’ottobre 2015, dopo una lunga discussione parlamentare, la Camera licenziò in prima lettura una proposta di riforma che, stemperando consistentemente le proposte della legge di iniziativa popolare ed evitando di mettere mano in materia di naturalizzazione degli adulti, introduceva due nuove modalità di acquisizione della cittadinanza per i minori nati in Italia o arrivati in tenera età: lo “ius soli temperato” e lo “ius culturae”.
Lo “ius soli temperato”, ben lontano dal riconoscere la cittadinanza italiana automaticamente a chiunque nasca in Italia, prevede invece, più modestamente, che diventi italiano il bambino nato nel Paese da almeno un genitore in possesso di permesso di lungo soggiorno, permesso che si ottiene dimostrando di possedere una serie di requisiti, tra i quali almeno cinque anni di residenza stabile, un’abitazione, un contratto di lavoro, un reddito e il superamento di un test di conoscenza della lingua italiana. Una serie di “se” piuttosto stringenti, che limitano notevolmente il numero dei potenziali beneficiari.
Lo “ius culturae”, invece, rappresenta probabilmente la parte più innovativa della proposta di riforma poiché lega il diritto a diventare italiano del minore nato o cresciuto in Italia al fatto di aver qui frequentato un ciclo di studi di almeno cinque anni, riconoscendo così la capacità della scuola di creare inclusione e appartenenza alla società. Secondo gli ultimi dati della Fondazione Moressa, sarebbero ad oggi circa 166 mila i ragazzi di origine straniera che hanno completato almeno un ciclo scolastico in Italia e che sarebbero quindi immediatamente interessati dallo “ius culturae”. Considerando che nelle scuole della Penisola, attualmente, un alunno su dieci è di origine straniera, è facile immaginare quale sia il potenziale di questo istituto. O quale sarebbe, se solo la riforma fosse approvata. Dopo essere rimasta ferma in Senato per due anni, nel 2017 non si volle portarla in aula prima della fine della legislatura. È bene ricordarlo: condussero a questa “non scelta” le divisioni interne dell’allora coalizione di governo di centro-sinistra, l’astensione del Movimento 5 Stelle e la trasversale abitudine della classe dirigente del nostro Paese di cercare consenso sulla pelle degli stranieri. Lo stesso Pd – che nel 2013 aveva posto la riforma della cittadinanza come primo punto programmatico – si disunì, preferendo investire il suo residuo capitale politico sul testamento biologico (non tanto per la sua urgenza ma perché, sondaggi alla mano, risultava meno “divisivo” in vista dell’imminente campagna elettorale).
Il disegno di legge rimasto bloccato due anni fa è ora nuovamente depositato in Commissione Affari costituzionali (assieme ad altre due proposte più o meno dello stesso tenore). Ma non appena riaperto il dibattito alla Camera, è tornata a sventolare la bandiera della propaganda: si convocano piazze, si raccolgono firme (buffo raccogliere firme contro una legge di iniziativa popolare!) e si innalzano barricate “contro lo ius soli” e contro ogni automatismo che si paventa “regali” la cittadinanza italiana a “qualsiasi bambino nato a bordo di un barcone”, come se fosse mai esistita una proposta di legge che ipotizza la distribuzione di passaporti alle frontiere.
Di nuovo una narrazione disonesta e irresponsabile cavalca la paura dei cittadini, creando disinformazione, seminando dubbi e utilizzando “lo straniero“ come merce straordinariamente appetibile. Peccato che in questo caso non è di stranieri che stiamo parlando ma di bambini e ragazzi che qui sono nati, cresciuti, hanno studiato, e che di fatto sono italiani: una parte di Italia che ci ricorda quanto il Paese sia fermo mentre la società va inesorabilmente avanti.
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