Come fare a ridurre le emissioni climalteranti, almeno del 40%, entro il 2030, in uno spirito di giustizia sociale? Questa domanda, a dir poco spinosa, non è stata rivolta a una commissione di esperti internazionali, bensì a un gruppo di comuni cittadini francesi – 150, per l’esattezza – che sono stati protagonisti di un’esperienza assolutamente inedita, la Convention citoyenne pour le climat: una “assemblea dei cittadini”, cioè uno specifico dispositivo di democrazia deliberativa in cui dei cittadini estratti a sorte, statisticamente rappresentativi della popolazione, nell’arco di un periodo di tempo determinato, sono chiamati a confrontarsi tra loro, e con degli esperti, su una precisa tematica. Nel caso della Convention citoyenne pour le climat, al centro della riflessione c’era il cambiamento climatico.
Nell’ottobre 2019, aprendo ufficialmente i lavori della Convenzione, Emmanuel Macron ha chiesto ai partecipanti di elaborare delle vere e proprie proposte di legge che consentissero di raggiungere quello che è un obiettivo ambientale strategico per il Paese. Nello stesso tempo, ha preso pubblicamente un impegno molto chiaro nei loro confronti: avrebbe portato in Parlamento, o, se del caso, al referendum, tutte le proposte elaborate, “senza filtri”, ossia senza rimaneggiamenti da parte di terzi, a patto che fossero di qualità e fossero scritte in una forma anche giuridicamente precisa e corretta.
Una scelta ardita, quella del presidente francese, motivata politicamente dalla necessità di rispondere in maniera innovativa alla dura protesta del movimento dei gilet jaunes nata proprio contro l’aumento della Carbon tax (la tassa sui carburanti di origine fossile): una “tassa verde” considerata socialmente iniqua. I lavori della Convention non si sono fermati neanche durante il lockdown e dopo nove mesi di lavoro, nel luglio 2020, “i 150” hanno consegnato un dossier che di proposte ne conteneva 149, tutte accuratamente analizzate anche dal punto di vista giuridico.
Ma come si è arrivati a questo risultato?
La Francia ha da tempo inserito strumenti deliberativi, come il Débat public, all’interno del suo ordinamento giuridico, e la Convention citoyenne pour le climat non è certamente la prima “assemblea dei cittadini”; ciò nonostante, per alcune sue caratteristiche, questa esperienza rappresenta una novità importante ed è destinata a fare scuola: per la scala, che è nazionale, e per il numero di cittadini coinvolti; per la posta in gioco e per il tema, complesso e tendenzialmente di appannaggio degli addetti ai lavori; per la concretezza dell’impegno preso pubblicamente dal presidente Macron in persona. Una sperimentazione molto ambiziosa costruita su due basi solide: la qualità del campione statistico e il design del processo. “I 150 rappresentano un campione aleatorio stratificato, composto a partire da una prima lista di 250.000 nominativi”, spiega Loïc Blondiaux, docente di Scienze politiche alla Sorbona, esperto di pratiche deliberative e membro del Comitato di governance. “Abbiamo continuato a chiamare fintanto che non abbiamo completato tutte le categorie – età, genere, luogo di residenza, professione, livello di istruzione. Non credo che ci sia mai stata in Francia un’assemblea dei cittadini più rappresentativa di questa”.
Al Comitato di governance, organismo del tutto indipendente, è stato affidato il compito di strutturare il processo e gestirne lo svolgimento. “Il nostro obiettivo fondamentale è stato preservare la qualità della deliberazione dei cittadini”, continua Blondiaux, e con questo scopo è stato messo a punto un percorso molto articolato che ha consentito ai partecipanti di acquisire competenze sufficienti per addentrarsi nelle questioni ambientali e nelle loro molteplici implicazioni con consapevolezza, per arrivare all’elaborazione di proposte e alla loro formulazione in termini giuridici. Nel corso dei nove mesi di lavoro, i 150 sono stati coinvolti in incontri con esperti – scienziati, climatologi, economisti, giuristi ecc. – così come con rappresentanti della società civile, del mondo imprenditoriale e sindacale, della politica. A questi incontri sono seguite le sessioni di lavoro, animate da facilitatori professionisti e con il supporto costante di fact checker, dei cinque diversi gruppi tematici – nutrirsi, spostarsi, abitare, produrre, consumare – per condividere riflessioni e preoccupazioni, mettere a fuoco la strategia, elaborare e affinare le proposte.
Si tratta di proposte dettagliate e minuziose che incidono direttamente sul nostro stile di vita: dalla regolamentazione della pubblicità dei prodotti ad alto impatto ambientale, al riscaldamento dei déhors in inverno, dagli strumenti contro il consumo di suolo e il proliferare delle villette unifamiliari nelle periferie, a quelli per disincentivare l’uso dell’auto individuale. “Abbiamo sempre lavorato chiedendoci come agire alla radice del problema, per cambiare i comportamenti che stanno alla base”, racconta Matt Marcha, trentaduenne residente a Lione, membro del gruppo di lavoro sulla mobilità alla Convention. Per lui le misure che hanno predisposto centrano l’obiettivo che ci si era posti. Sono coerenti e funzionano. “Sono state pensate da 150 persone insieme per giorni e giorni affinché funzionassero”, aggiunge, “e sono efficaci, a patto che siano prese nel loro insieme perché sono interdipendenti tra loro: se si comincia a toglierne dei pezzi, c’è il rischio che crolli tutto”. Un’opinione condivisa, quella espressa da Marcha, se consideriamo che durante la sessione finale, dedicata alle votazioni, la grande maggioranza delle misure è stata approvata a larga maggioranza, se non quasi all’unanimità. Una sola proposta, quella sulla riduzione dell’orario di lavoro, non è stata approvata. “Il momento del voto è stato un’emozione fortissima”, conclude Marcha. “Non è stato facile, ma siamo arrivati comunque a un risultato che convince tutti e in cui tutti si riconoscono”.
Con la consegna ufficiale delle proposte, in un incontro pubblico all’Eliseo, a metà luglio la Convention si è formalmente chiusa. Quel momento ha segnato l’inizio di una fase nuova, e non meno complessa, del processo: il confronto con il mondo della politica, con i media e soprattutto con il resto della popolazione francese. Le proposte saranno discusse in Parlamento; quelle che riguardano la Costituzione, per esempio l’introduzione di un reato penale di ecocidio, dovranno essere sottoposte a referendum. I partecipanti alla Convenzione si sono riuniti in un’associazione, “Les 150”, per far conoscere l’esperienza di cui sono stati protagonisti e le proposte a cui hanno lavorato, per monitorare l’avanzamento del percorso legislativo di ciascuna misura e soprattutto, come spiega Marcha, per “evitare che qualcuno parli al posto nostro”.
Sul futuro delle proposte, Blondiaux si esprime con preoccupazione: “La Convention ha prodotto un programma e una politica che per il momento non sono compatibili con il programma e la politica al potere. Adesso tutto si gioca nel rapporto di forza tra i 150, insieme con tutti i cittadini che sosterranno questa esperienza, e la maggioranza al potere. Il rischio che col tempo le proposte vengano edulcorate, annacquate, è reale”.
Sebbene le iniziative partecipative, di qualità, siano sempre più diffuse nel nostro Paese, immaginare di realizzare qui un’esperienza analoga è davvero difficile: il confronto con la Francia sul piano legislativo è impietoso. Basti pensare che l’unico strumento deliberativo introdotto nel nostro ordinamento, il Dibattito pubblico per le opere pubbliche, a due anni dalla sua approvazione è già sotto attacco: il Ddl semplificazioni, approvato in Senato a inizio settembre, prevede la revoca della sua applicazione in ragione dell’emergenza sanitaria, dimenticando che quello all’informazione e alla partecipazione è un diritto garantito dalla Convenzione di Aahrus e che proprio nei momenti di crisi, e sulle tematiche più conflittuali, il dialogo e il confronto sono fondamentali per arrivare a scelte condivise ed efficaci. Questo insegna la Convention citoyenne pour le climat.
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