Porta la data del 5 febbraio 1992 una delle leggi più discusse e contestate negli ultimi anni: la legge n. 91 sulla cittadinanza italiana. Esattamente trent'anni fa il Parlamento italiano decideva di aggiornare quel sistema di norme e di regole immaginate nell’Italia giolittiana, nel 1912, per stabilire chi (e come) potesse ottenere la cittadinanza italiana.
La legge del 1992 venne approvata con il consenso dell’intero arco parlamentare, nel pieno di una stagione estremamente tesa sul piano degli equilibri politici: si tratta di uno degli ultimi provvedimenti della decima legislatura, l’ultima della cosiddetta «Prima Repubblica», prima del ciclone di Tangentopoli.
La legge stabilisce una serie di norme che riorganizzano le modalità con cui un cittadino straniero può acquisire la cittadinanza. I destinatari principali cui si rivolge il provvedimento sono legati al particolare intreccio migratorio nostrano: l’universo dell’emigrazione italiana insieme ai suoi discendenti e il mondo dell’immigrazione straniera. La legge prevede una grande novità per figli e nipoti degli emigranti italiani: la possibilità di chiedere la cittadinanza, a patto di dimostrare di essere discendente in linea diretta di cittadini italiani. Tale norma era stata richiesta a gran voce da decenni dai connazionali all’estero e arrivò quando ormai i flussi di massa, soprattutto verso le Americhe, erano terminati da tempo.
Per gli immigrati stranieri la cittadinanza può essere richiesta dopo 10 anni di residenza. I figli degli immigrati stranieri nati in Italia possono chiedere la cittadinanza soltanto al compimento del diciottesimo anno di età, hanno un anno di tempo per poter presentare domanda e devono dimostrare di essere stati ininterrottamente residenti in Italia dalla nascita ai 18 anni.La legge del 1992 stabilisce una serie di norme che riorganizzano le modalità con cui un cittadino straniero può acquisire la cittadinanza. I destinatari principali cui si rivolge il provvedimento sono legati al particolare intreccio migratorio nostrano
La legge si sofferma poi su molte altre tipologie: l’acquisizione per matrimonio, il tema degli apolidi, le adozioni, la rimozione della differenza tra discendenza in linea paterna e materna. L’impianto generale del provvedimento, con alcune parziali eccezioni, è ispirato a una concezione della cittadinanza legata alla trasmissione per vie famigliari.
Nell’immediato, la legge non suscitò particolari clamori. Ma i nodi vennero presto al pettine, sia sul fronte dell’emigrazione sia su quello dell’immigrazione. Molti discendenti anche lontani di emigranti italiani, soprattutto in America Latina, iniziarono a ottenere la cittadinanza con una certa facilità, utilizzandola per muoversi non tanto verso il Paese della remota origine, ma soprattutto verso gli Stati Uniti e la Spagna, suscitando non poche polemiche anche a livello diplomatico. Dopo la riforma sul voto degli italiani all’estero, nel 2001, possono votare per corrispondenza. Al contrario, la rapida crescita dell’immigrazione straniera in Italia rendeva chiaro che la rigidità imposta nella legge del 1992 ai figli e alle figlie dell’immigrazione rappresentava un duro ostacolo all’acquisizione della cittadinanza per una parte sempre più massiccia della popolazione, residente in Italia dalla nascita o da giovane età.
La legge del 1992 si palesava come un provvedimento del tutto inadatto alla rapida mutazione dei tempi, figlio di una visione superata della composizione reale della società. Quella che ai legislatori sembrava una «grande opportunità» (per usare le parole di Margherita Boniver, ministra dell’Immigrazione nel febbraio 1992) rappresentava per i diretti interessati una ennesima forma di discriminazione.
A ben vedere le disposizioni nei confronti delle seconde generazioni risultavano perfino più severe rispetto alla legge del 1912. Nel testo di 110 anni fa, lo straniero nato in Italia poteva ottenere la cittadinanza se risultava residente nel territorio italiano al compimento dei 21 anni (a quei tempi l'età in cui si diventava maggiorenni), senza alcuna dimostrazione di continuità di residenza: era sufficiente farne richiesta entro lo scoccare dei 22 anni. La nuova legge invece imponeva l'onere della prova di essere stati residenti «legalmente» ininterrottamente in Italia fino alla maggiore età.
Questa palese chiusura normativa rappresentava una cesura netta rispetto al passato. La legge del 1912 era stato il primo intervento organico dopo l'Unità a definire i confini della cittadinanza, in una situazione di intensa circolazione internazionale dei suoi abitanti. Molti Paesi di immigrazione concedevano la cittadinanza con estrema facilità, per favorire l'inserimento degli emigranti nel proprio tessuto economico e sociale. Il Parlamento di Roma cercò di tenere aperta la porta agli italiani in emigrazione, contemplando ad esempio la possibilità della doppia cittadinanza.
Alla fine del Novecento, invece, in un'altra situazione di intensa circolazione internazionale, il concetto di cittadinanza veniva ridefinito attraverso meccanismi «escludenti» o comunque discriminatori: venivano costruite – e quindi accettate all'interno del corpo sociale degli abitanti nel territorio italiano – ampie zone d'ombra rispetto al pieno godimento dei diritti. Lo storico del diritto Carlo Bersani è arrivato alla conclusione che «la legge del '92 sia ispirata a una logica del tutto estranea alle tradizioni costituzionale e liberale-unitaria: l'istituto della cittadinanza non è più diretto a fornire un modello unificante, ma, al contrario, sembra diretto a costituire e a distinguere entro un medesimo territorio le diverse condizioni individuali di "cittadino" e di semplice "abitante"».
Nella storia italiana – tra il 1912 e il 1992 - erano intervenute in realtà nuove fratture rispetto a una concezione universalistica e includente della cittadinanza: l'esperienza coloniale e il fascismo, per fare due esempi, avevano prodotto forme frammentate ed escludenti, spezzettando e discriminando i soggetti «altri» rispetto a un certo modello di cittadino (bianco, maschio e politicamente fedele).
La risposta alla legge del 1992 ha però fatto emergere la forza di un nuovo soggetto sociale. Nel 2005 nacque infatti la Rete G2-Seconde Generazioni, fondata da figli di immigrati con il fine di riformare proprio quella legge, considerata ingiusta e arretrata. Prima del 2005 se ne parlava ancora poco: l’Italia si autorappresentava prevalentemente come Paese di prima accoglienza o di semplice passaggio per i migranti. Ma dopo il 2005, grazie anche alle mobilitazioni, non fu più così.
Le prime iniziative della Rete G2 consistevano in interventi a seminari e convegni. C’era voglia di protagonismo e di riprendere la parola come soggetti attivi e non più come oggetti del discorso. Quelli furono gli anni dei primi cd musicali, video, reportage e documentari autoprodotti, nonché delle inchieste sociali fatte dalle seconde generazioni per le seconde generazioni. «Niente per noi senza di noi!» era lo slogan dell’epoca. Le seconde generazioni non volevano più nascondersi, volevano uscire dal cono d’ombra: per ottenere qualcosa dovevano lottare a viso aperto e chiedere chiaramente e senza compromessi di essere riconosciuti come cittadini del Paese in cui vivevano. La Rete G2 tentò più volte di sollevare la questione della riforma della legge 91/92, anche attraverso audizioni in Parlamento: tutto finì con un nulla di fatto.
Nel 2011 venne lanciata la campagna «L’Italia sono anch’io», promossa da 27 organizzazioni nazionali, delle quali l’unica a rappresentare le seconde generazioni era proprio la Rete G2, con l’obiettivo di portare all’attenzione del Parlamento una legge di iniziativa popolare che riformasse radicalmente la legge sulla cittadinanza. Il principio di base era che chi nasce in Italia da genitori stabili sul territorio italiano deve essere riconosciuto italiano prima di accedere al percorso scolastico, non durante o dopo. Per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare servono 50 mila firme: ne furono raccolte più di 200 mila.
Il testo della proposta di legge, presentata all’inizio del 2012, fu poi alla base della proposta Fabbri, bollata con il termine «ius soli» dai suoi oppositori. La proposta venne approvata dalla Camera dei deputati ma tenuta nel congelatore per più di due anni al Senato, senza mai essere discussa. Seguirono anni di sconforto e di allontanamento dall’attivismo di molte seconde generazioni. Nel mezzo, tante le iniziative per eventi tragici, come la morte di Willy Monteiro Duarte e le mobilitazioni negli Stati Uniti, che portarono alla nascita di Black Lives Matter-Roma, organizzazione che ha rilanciato la riforma della cittadinanza.Dal 2021 la Rete G2 insieme a Black Lives Matter Roma e altre organizzazioni hanno deciso di promuovere una campagna con un dossier di denuncia sulle tante discriminazioni che subiscono le seconde generazioni. Il movimento di protesta sta ripartendo su basi nuove
Sempre nel 2011 la Rete G2, insieme ad Anci e Save the Children, ha promosso un'altra campagna dal nome evocativo, «18 anni… in Comune», per chiedere ai Comuni italiani la piena applicazione dell’articolo 4 della 91/92 e sollecitare i sindaci a informare i minori nati in Italia da genitori stranieri sulle modalità di acquisizione della cittadinanza al compimento dei 18 anni. Grazie alle pressioni della campagna, il Governo Letta stabilì nel 2013 che non è più imputabile alle seconde generazioni la mancanza del requisito di presenza anagrafica ininterrotta in Italia fino al compimento della maggiore età. La continuità diventava valida purché fosse in qualche modo dimostrabile l’effettiva presenza continuativa in Italia.
Purtroppo l’articolo 33 del decreto 69 del 2013 del governo Letta è rimasto lettera morta. Molti comuni non mandano le lettere per informare i figli degli immigrati dei loro diritti: proprio Roma, la capitale, è uno dei comuni che applica in modo più «insoddisfacente» questa riforma. Dal 2021 la Rete G2 insieme a Black Lives Matter Roma e altre organizzazioni hanno deciso di promuovere una campagna con un dossier di denuncia sulle tante discriminazioni che subiscono le seconde generazioni. Il movimento di protesta sta ripartendo su basi nuove.
A trent'anni dall'approvazione della legge n. 91 è il momento di avanzare una riflessione scientifica e civile approfondita su questa vicenda. È necessario affrontare i nodi problematici rimasti irrisolti nel dibattito pubblico – e attualmente rimossi – ricongiungendoli con i fili lunghi delle scelte sulla cittadinanza fatte dalle classi dirigenti italiane. Sarà così possibile contribuire alla comprensione dei complessi meccanismi di esclusione e inclusione nel percorso accidentato della storia italiana, nella prospettiva di una nuova stagione di cambiamento.
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