La costruzione della cittadinanza repubblicana è intrinseca al processo di perdita dello status di Paese coloniale all’indomani della Seconda guerra mondiale. È stato Giovanni Moro, responsabile scientifico di Fondaca, a introdurre il concetto nel discorso pubblico e quindi a monitorare le coordinate spaziali e temporali del fenomeno nel tempo presente (G. Moro et al., La cittadinanza in Italia, una mappa, Carocci, 2022).

Occorre osservare la cittadinanza come fenomeno empirico, mettendo a confronto i modelli normativi e legislativi (1912, 1992, proposte sullo jus scholae nel dibattito odierno) con le trasformazioni in senso diacronico delle pratiche reali e dei mutevoli contesti storico-sociali: prima delle conquiste coloniali e quindi dell’età post-coloniale, quando il palesarsi del fenomeno dell’immigrazione africana in Italia riguardò anche e soprattutto quanti provenivano dalle terre dell’ex impero fascista (la Libia e i Paesi del Corno d’Africa). Muovendo dalla strutturazione concettuale del dispositivo di cittadinanza proposto da Moro – “l’appartenenza come status e come identità, diritti con i correlati doveri, partecipazione” (p. 10) – il percorso di riflessione storico-culturale sulla cittadinanza che ne deriva rinvia a temi che possiamo indagare proprio a partire da come essi furono affrontati nella costruzione dell’ordine coloniale tra la fine dell'Ottocento e il 1943, per poi interrogarci sulla loro dissimulazione nei decenni dell’Italia repubblicana.

La mappa tematica, anche in una prospettiva comparativa europea, è presto richiamata: il colore e la “bianchezza” come fattori discriminanti nell’accesso alla cittadinanza, così come la correlazione tra diritti e doveri, il valore dell’istruzione e della cultura nella mobilità sociale e nell’acquisizione di uno status di appartenenza, i luoghi di memoria nel riconoscimento di un senso di identità (cfr. Il colonialismo e l’Europa. Politiche della memoria e uso pubblico della storia, a cura di F. Focardi e A. Pes, “Memoria e Ricerca”, n. 2/2023).

I retaggi coloniali. Sussistono fecondi percorsi di ricerca storico-culturale, quali l’impatto della presenza italiana in Africa dalla fine dell’Ottocento agli anni dell’Impero, così come la presenza dell’eredità coloniale nello spazio e nel discorso pubblico. Fin dalla conquista tra 1911 e 1912, la forte componente propagandistica e mitica insita nella campagna libica risultò fondativa di un nesso tra discorso coloniale e rappresentazione della nazione – tra l’“altro” e l’“altrove” rispetto al “noi” nazionalista – che si sarebbe rivelato persistente nel corso di tutto il Novecento, sulla scorta di una visione discriminatoria e razziale, intesa a suffragare l’idea di nazione – grande, eroica, civile, moderna. Alle visioni razziste che accompagnarono l’occupazione libica corrispose l’incompiuta instaurazione di un “ordine coloniale”, conclusa dal regime fascista solo tra 1931 e 1932, con pratiche abituali di violenta repressione delle popolazioni locali e di deportazione delle popolazioni nei campi di concentramento allestiti nelle isole carcerarie (Ustica, Tremiti, Favignana, Egadi, Ponza).

Fu nella fuoriuscita dal conflitto 1914-1918 che, di fronte alla proclamazione della Repubblica tripolitana indipendente, in Libia maturò un progetto volto ad associare i notabili locali nella gestione della colonia. Frutto di un duplice orientamento – il contrasto al nazionalismo libico ma il rifiuto di ogni prospettiva di assimilazione della popolazione araba e mussulmana –, la Legge fondamentale per la Tripolitania (1° giugno 1919) riconosceva una forma di parziale cittadinanza (con successiva estensione alla Cirenaica). In una correlazione fluida tra soggettività, cittadinanza, autonomia e indipendenza, le istanze di uno status giuridico e le rivendicazioni nazionali delinearono un “vissuto” di compresenti e graduate forme di effettiva sudditanza e prospettata cittadinanza, con la formalizzazione di un sistema di diritti differenziati tra gli stessi nativi libici (notabili, leader politici, minoranze ecc.). Si trattò di concessioni rimaste perlopiù sulla carta, con la mancata attivazione dei Parlamenti territoriali e una reiterata politica di “pacificazione” che avrebbe comportato il ritorno delle rigide misure di dominio coloniale. Influirono gli orientamenti della politica imperiale fascista e le sfide che provenivano dalle società coloniali, oscillanti tra sottomissione e cooptazione delle élite al potere, resistenza e repressione, cui corrispondevano tradizionali sistemi di coesione sociale nella popolazione locale e di razializzazione dello status legale (Citizens and Subjects of the Italian Colonies. Legal Constructions and Social Practices, 1882-1943, a cura di S. Berthe e O. De Napoli, Routledge, 2021).

La forte componente propagandistica e mitica insita nella campagna libica risultò fondativa di un nesso tra discorso coloniale e rappresentazione della nazione – tra l’“altro” e l’“altrove” rispetto al “noi” nazionalista

Nell’ambito di una riflessione, ormai ampia e articolata, sul razzismo italiano negli anni del fascismo, risalta la duplice componente – tra segregazione e utilitarismo – insita in un progetto imperiale che avrebbe preso forma compiuta con l’occupazione dell’Etiopia e la configurazione nel maggio 1936 dell’Africa orientale italiana (Aoi). Sussisteva un comune denominatore per la nozione di impero fascista: “un dominio pieno e senza limiti sugli africani da parte degli italiani in quanto ‘razza’ bianca”. La dimensione di genere è una delle direttrici che permette di indagare lo sfondo ideologico sulla cui base fu costruito il discorso pubblico sul primato dell’“esser bianchi”. Anche nelle colonie italiane, come altrove negli altri imperi europei, il dispositivo grazie al quale il disciplinamento sociale nelle colonie fu imposto passò attraverso il controllo della sessualità. Chi ha indagato il caso della Libia e ha confrontato le politiche fasciste in Africa orientale con quella degli imperi coloniali ha verificato come il disciplinamento della sessualità fosse una delle politiche su cui i governi concentrarono i propri sforzi di costruzione di una società coloniale che rispondesse a un preciso disegno politico e culturale. Insomma, prevaleva la difesa di un funzionalismo razziale su basi gerarchiche. Occorreva rendere visibile anche Oltremare la realizzazione del progetto fascista di “uomo nuovo” e di italianizzazione dei nuovi territori; in Libia esso assunse sembianze razziali ben prima della deriva anti-ebraica cui approdò il regime dopo il 1938. 

Nel tempo della Repubblica. Se l’epopea del ritorno in Italia della comunità coloniale, una volta disperso l’impero, si sarebbe palesata soprattutto dopo il 1970, con l’avvento di Gheddafi al potere, l’impatto quantitativo dei migranti post-coloniali fu minore rispetto ad altri Paesi ex coloniali: ciò riguardò i meticci ma anche gli ascari e gli intermediari, coloro che avevano assicurato i rapporti tra il potere coloniale e i colonizzati indigeni. Eppure, a fronte delle posizioni ufficiali in favore del principio dell’autodeterminazione, persistevano narrazioni pubbliche volte a rimarcare la funzione civilizzatrice svolta dal colonialismo italiano a favore di popolazioni ritenute barbare e primitive. Fu quanto promosse, a partire dal 1952 e per oltre quasi un trentennio, il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, godendo del monopolio delle carte d’archivio ministeriali: negli oltre quaranta tomi agiografici dell’Italia in Africa pubblicati fino agli anni Ottanta, non v’era traccia alcuna di temi come quelli dei profughi, dei crimini, delle violenze e delle discriminazioni razziali. Fino a quando, dagli anni Sessanta-Settanta, non si ebbero i primi studi storici di carattere scientifico, peraltro a lungo marginalizzati e solo di recente riattualizzati, grazie al contributo di una nuova leva di giovani e valenti studiosi.

Negli ultimi trent’anni il fenomeno delle migrazioni ha registrato sviluppi su vari piani: la richiesta della cittadinanza italiana da parte dei discendenti dei primi emigrati, l’esercizio del diritto di voto anche per gli italiani residenti all’estero, nonché una nuova e massiccia ondata di espatri (la terza nella storia delle migrazioni italiane). Il tutto mentre l’Italia, nel quadro di una globale trasformazione degli equilibri geopolitici e demografici, dagli anni Novanta stava diventando anche un Paese meta, ossia terra di transito di un’immigrazione globale. Nella necessità di ridefinire un ruolo nel contesto euro-mediterraneo e internazionale, la mancanza di politiche intese a governare i processi di integrazione ha prodotto un diffuso senso di “spaesamento”, enfatizzando le paure e le tensioni proprie di un dibattito condizionato anche dalla percezione di una forte crisi di identità nazionale.

Risaliva agli anni Ottanta la trasformazione dell’Italia da Paese di emigrazione a terra anche di immigrazione. Rispetto al clima di intolleranza che circondava il crescente arrivo di manodopera straniera, il governo fu indotto a emanare i primi provvedimenti per la regolarizzazione dei migranti (legge Martelli, 1990). Fu però la nuova legge sulla cittadinanza, introdotta nel 1992, a prefigurare alcuni dei processi che si manifestarono con il nuovo secolo. Il boom di richieste di un riconoscimento della “italianità” da parte dei discendenti degli emigrati all’estero fu conseguente l’indicazione dello jus sanguinis – la nascita da genitore italiano – come criterio di fatto esclusivo. La legge sulla cittadinanza del 1992 introdusse invece norme più restrittive (rispetto alla precedente norma del 1912) sull’acquisizione della italianità da parte degli immigrati, estendendo da cinque a dieci anni il periodo di residenza, legale e continuativa, necessario per farne richiesta.

Mancando in seguito una legislazione in merito, nel dibattito culturale e politico ci si è attardati su possibili alternative, quali lo jus soli (è cittadino chi nasce in Italia) e, in forma forse più equilibrata e meno conflittuale, lo jus culturae o jus scholae (la frequentazione di uno o più cicli scolastici): è quanto tanti immigrati di seconda e successiva generazione, nati pertanto in Italia, possono vantare, avendo passato l’infanzia nelle scuole italiane. Chi segue da vicino gli sviluppi del fenomeno, come la Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana (Cei), rilanciò a suo tempo un quesito di fondo: “È più italiano chi è nato all’estero, non parla la nostra lingua, non ha mai visto l’Italia, o un ragazzo che è nato e ha studiato qui?” (M. Menduni, In fuga dal Sudamerica. La corsa ai passaporti dei discendenti italiani, “La Stampa”, 16.7.2017).

Sono prevalse politiche di chiusura e di discriminazione, tramite un linguaggio pubblico che legittima comportamenti xenofobi e razzisti

Erano 356 mila gli stranieri residenti in Italia nel 1991: divennero 1 milione e 334 mila dieci anni dopo e oltre 4 milioni nel 2011, per attestarsi già nel 2018 sui 5 milioni e 68 mila (pari al 6-7% della popolazione complessiva): al gennaio 2024 la popolazione residente di cittadinanza straniera è di 5 milioni e 308 mila unità (in aumento di 166 mila individui, ossia +3,2%, sull’anno precedente). Eppure, l’inefficacia delle politiche di intervento ha fatto mancare risposte alle esigenze strutturali di un Paese in profonda crisi demografica e con la necessità di nuova forza-lavoro. Sono prevalse politiche di chiusura e di discriminazione, con il rinvio di ogni possibile e perseguibile integrazione, rappresentando l’immigrazione come una emergenza continua, tramite un linguaggio pubblico che legittima comportamenti xenofobi e razzisti, attraverso la denuncia di una “invasione” straniera per altro non avvalorata dai dati effettivi.

Il mancato riconoscimento di un passato comune era stata la trama in parte autobiografica di Il latte è buono, un romanzo di Garane Garane del 2005 che è stato definito come il primo romanzo post-coloniale in lingua italiana (Cosmo Iannone editore). Il protagonista è Gashan, un giovane somalo la cui vicenda di emancipazione scorre attraverso la colonizzazione italiana (la lingua e gli studi in età adolescente), l’indipendenza del suo Paese, l’arrivo in Italia e la mancata integrazione, l’esilio e le peregrinazioni altrove, infine il ritorno in Somalia dopo la guerra civile del 1990. Gashan si sente straniero proprio in quell’Italia che immagina come casa sua: ieri come oggi, nel disconoscimento di una storia comune e dell’assunzione di una non dissimulata responsabilità circa le conquiste e il dominio coloniali. Del resto, già in un film assai noto quale Brutti, sporchi e cattivi, diretto nel 1976 dal regista Ettore Scola con prim’attore Nino Manfredi, la rappresentazione della misera condizione di vita, materiale e morale, in una baraccopoli della periferia romana, vedeva come protagonisti sia gli emigrati italiani (dalla Puglia) sia i primi immigrati africani provenienti dalle ex colonie.

Nell’ultimo decennio si sono registrati i movimenti migratori più significativi e con provenienze diverse (non solo dall’Africa mediterranea e subsahariana). Alcuni eventi drammatici hanno colpito l’immaginario negli anni in cui si ebbero i picchi di arrivi, tra 2013 e 2016. Nel frattempo la piccola isola di Lampedusa, interessata dai primi anni Novanta dall’immigrazione irregolare, è divenuta un luogo simbolico suo malgrado: la porta mediterranea dell’Unione europea. Il 3 ottobre 2013 si verificò un naufragio disastroso (S. Allievi, 3 ottobre 2013. Strage di Lampedusa. Il lavoro migrante. Drammi, paure, conflitti, in Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile, a cura di A. Bolaffi e G. Crainz, Donzelli, 2019). Un peschereccio proveniente dalle coste libiche e carico di migranti, perlopiù eritrei, a un miglio dall’isola, affondò in mare, provocando la morte di 368 persone (tra le quali donne e bambini). Altre tragedie si ebbero in seguito, con migliaia di morti. Eppure, nonostante le momentanee azioni umanitarie intraprese, non si giunse alla promozione di una condivisa politica italiana ed europea sulle migrazioni.

In Italia si produsse un moto di indignazione e il Parlamento dichiarò la data del 3 ottobre “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione” (legge 45/2016). Essa è fortemente simbolica anche sul piano storico-culturale perché rinvia a una giornata, il 3 ottobre nel 1935, in cui ebbero inizio le operazioni militari del regime fascista per l’occupazione dell’Etiopia; i morti di Lampedusa erano provenienti dall’Eritrea, figli e nipoti di ex sudditi coloniali. Anche un calendario civile, europeo e italiano insieme, può risultare utile allo scopo di stimolare un più compiuto senso della storia, favorendo la condivisione di appartenenze e valori che, come è stato osservato, “in un Paese di ex emigranti ed ex colonizzatori, occorre saper costruire e consolidare, perché le ferite e le speranze disattese del passato sono tuttora ferite aperte di cui occorre avere consapevolezza” (A. Triulzi, 3 ottobre. Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione, in Calendario civile, a cura di A. Portelli, Donzelli, 2017, p. 256).