Se ne osserviamo i tratti, i proclami e la conduzione, la guerra in Ucraina potrebbe apparire come un residuo della storia. Alla virulenza dell'armamentario nazionalistico (dalla sacralità dei confini agli sbocchi sul mare, dalle leggi di sangue e suolo alle rivendicazioni di terre che nella storia hanno conosciuto attraversamenti e bandiere di diverso colore) corrisponde una guerra casa per casa, villaggio per villaggio, con l'assedio delle città e la distruzione delle infrastrutture civili e culturali. Rivivono scenari novecenteschi: dolore, distruzione e tutto quel che già sappiamo della guerra, che pure non viene indagata a dovere, malgrado accompagni da sempre la vicenda umana come presenza archetipica. Tanto che ogni volta ci si stupisce di quanto possa essere profondo l'abisso.
Talvolta si ha la sensazione che il tempo si sia fermato, come se si stesse riavvolgendo una pellicola consunta, in luoghi che hanno continuato a versare lacrime e sangue nel cuore orientale dell'Europa, di questa Europa così presuntuosa da pensarsi immune, nonostante sia stata l'epicentro delle due guerre mondiali e del suo tragico ritorno nella regione balcanica e nell'area caucasica. Un residuo della storia, dunque? Così leggemmo trent'anni fa quel che avvenne nei Balcani, questa volta nel cuore profondo dell'Europa, quando a Sarajevo si chiuse quel secolo che proprio nella capitale bosniaca era iniziato con l'assassinio che diede il via alla alla Prima guerra mondiale.
Talvolta si ha la sensazione che il tempo si sia fermato nel cuore di questa Europa così presuntuosa da pensarsi immune, nonostante sia stata l'epicentro delle due guerre mondiali e del suo tragico ritorno nella regione balcanica
Emerse in quegli anni tutta la superficialità di cui era capace l'Occidente. Si dissero per lo più cose banali, stupide. Guerre arcaiche ed etniche, popolazioni sanguinarie... Luoghi comuni come supplenza al vuoto di analisi e di conoscenza di un tessuto storico e culturale, sociale e psicologico. Che accompagnava, tranne rare eccezioni, una diplomazia internazionale interessata e cinica.
Nei Balcani, come nel Vicino Oriente o nella regione africana dei Grandi Laghi, prendevano tragicamente corpo quelle che Mary Kaldor indicò come le «nuove guerre», dove la violenza organizzata non era più la continuazione della politica con altri mezzi, né monopolio degli Stati nazionali, ma un processo di destabilizzazione acuta dove convergevano interessi criminali e narrazioni radicate proprio per non aver fatto i conti con il passato.
Avvenivano nel nome del sangue e del suolo, agitando immagini religiose che ben si prestavano ad offuscarne la natura mafiosa, sullo sfondo di processi di accumulazione primaria come le privatizzazioni di grandi patrimoni prima statuali. Nasceva qui – fra guerra, affari e imbarbarimento culturale e politico – l'immenso potere delle oligarchie, i traffici più spregevoli, le operazioni speculative che accompagnano gli embarghi, nel sottile diaframma che separa legalità e crimine. Si aprivano banche d'affari nei paradisi fiscali per riciclare i profitti di guerra, la stessa pulizia etnica non era l'esito dell'odio (che pure non mancava) ma lo strumento per foraggiare le bande dei miliziani, che oggi chiamiamo contractor. Nuove figure – queste ultime – che avranno un ruolo crescente nelle guerre del nuovo secolo.
Nella fattispecie jugoslava, la guerra (e più ancora il dopoguerra) rappresentò anche l'occasione per una gigantesca e spietata sperimentazione sociale nella privatizzazione di ogni forma di Welfare dove tutto prima era riconducibile allo Stato. Le guerre assunsero i caratteri della postmodernità. Era solo l'inizio di un nuovo ciclo di crisi, guerre feroci da essere rimosse come quelle caucasiche, nel Golfo o in Afghanistan, ma anche l'irrompere del terrorismo internazionale che avrà nel cuore della Grande Mela una plastica e tragica rappresentazione.
Per anni ho scritto e parlato in solitudine della Transnistria, quando questa striscia di terra al di là del fiume Nistru – occupata dal 1992 alla XIV armata sovietica – era al centro dei traffici di armi e di esseri umani in Europa, descrivendola non come una bizzarria della storia o della criminalità siberiana raccontata da Nicolaj Lilin, bensì l'esito della deregolazione più acuta cui erano funzionali la nascita di Stati offshore. Avremmo potuto capire per tempo. I luoghi dove gli umori divenivano rancore e il rancore progetto politico ce li saremmo trovati sotto casa.
Quando nel 2014 scoppiò la crisi del Donbass, questi ingredienti c'erano tutti: il carattere strategico di una regione a partire dalla sua ricchezza di materie prime, il controllo politico e sociale del territorio da parte di fiorenti oligarchie annidate già precedentemente nei meandri del regime, un sistema corruttivo radicato e dotato di un proprio apparato avvezzo all'esercizio della violenza. E, infine, una crescente tensione sociale, dovuta al venir meno delle precedenti forme di protezione sociale, che avrebbe richiesto un cambiamento profondo ma dove potevano bastare simbologie accattivanti e leadership paternalistiche.
È in questo contesto che in Donbass si manifestano le tendenze secessionistiche di stampo nazionalistico, cavalcate dai nascenti poteri forti. Ciò nonostante la fotografia di una grande maggioranza della popolazione favorevole all'integrazione con la Russia è ben lontana dalla realtà. L'idea di una netta divisione etnica che porta alla guerra civile è anch'essa una costruzione di comodo e i sondaggi del tempo lo dimostrano. La macchina della destabilizzazione era in moto. Si aggiunsero gli apparati di polizia e le milizie irregolari inviate da Mosca, in una sequenza di passaggi che prevedono proclamazioni di indipendenza e referendum, scontri e linee di contatto fra apparati confliggenti, elezioni farsa e accordi concepiti per essere infranti.
Il copione prevedeva il controllo da parte dei signori della guerra sulle risorse naturali, sugli apparati industriali, sui traffici triangolati attraverso l'Ossezia del Sud (altro Paese costruito per navigare nella postmodernità), fin quando la gestione per interposta persona non sarebbe divenuta più sostenibile. Il riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk da parte di Putin, oltre a mettere fine al precario equilibrio degli Accordi di Minsk, avrebbe provocato l'assunzione del controllo diretto delle operazioni da parte della Russia e, a quel punto, la guerra aperta con l'Ucraina.
L'esito di questi mesi di guerra lo conosciamo. I morti per le strade o nelle fosse comuni, i palazzoni sovietici sventrati e anneriti, gli occhi impietriti di un'umanità costretta ad abbandonare le proprie case, l'aria e l'acqua avvelenate, il sudiciume di ogni guerra, l'incubo nucleare che da quelle parti conoscono bene. Il tutto sotto gli occhi, più o meno interessati, di attori internazionali ancora fermi al motto dei latini, si vis pacem, para bellum. E un dibattito pubblico in buona parte reclutato alle ragioni della guerra, come se lo schierarsi non potesse essere che fra Putin e l'Occidente.
Con la crisi delle ideologie novecentesche, il richiamo allo scontro di civiltà sembra essere diventato il retroterra culturale più congeniale per il consenso di massa verso la guerra. Così, anziché divenire consapevoli che l'Antropocene richiede un nuovo approccio (la complessità), nuovi paradigmi (la cultura del limite), nuove geografie (gli ecosistemi), nuove istituzioni (una Costituzione della Terra), il pianeta sembra finire in un immenso ingorgo denso di incognite per il futuro.
Anziché divenire consapevoli che l'Antropocene richiede un nuovo approccio (la complessità), nuovi paradigmi (la cultura del limite), nuove geografie (gli ecosistemi), nuove istituzioni (una Costituzione della Terra), il pianeta sembra finire in un immenso ingorgo denso di incognite per il futuro
All'intrecciarsi di crisi climatiche, sanitarie, alimentari, demografiche che generano scarto ed esclusione mancava solo una guerra dalle implicazioni globali e fors'anche nucleari. Una deriva che investe l'Ucraina, l'Europa, il mondo intero. Occorre fermarla e, come dice papa Francesco, occorre un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo globalizzato. La parola pace – ridotta ad assenza di guerra – è stata così banalizzata da renderla pressoché inservibile. Ma se vogliamo darle ancora una chance dovremmo declinarla come educazione permanente e gestione nonviolenta dei conflitti.
Spesso si crede che la nonviolenza sia il terreno delle anime belle o di chi in maniera ipocrita intende sottrarsi al conflitto. Ma, come scrisse Gandhi, «la nonviolenza è una lotta contro l'ingiustizia più attiva e più concreta della ritorsione, il cui effetto è solo quello di aumentare l'ingiustizia». Un terreno di confronto che sembra non avere cittadinanza. Passare da 25 a 38 miliardi di euro l'anno per le spese militari di un Paese che “ripudia la guerra” vuol dire una cosa sola, aumentare l'ingiustizia.
Se si vuole la pace si dovrebbe preparare la pace. Eccolo il cambio di paradigma. Per farlo è necessario guardare al futuro, in primo luogo investendo in relazioni. L'Europa politica si costruisce attraverso reti che dovremmo far nascere ora fra i territori attraverso la cooperazione di comunità, rigenerando legami di antiche migrazioni, nell'incontro fra ambiti di ricerca ed università su temi come la gestione dei beni comuni e del patrimonio ambientale, l'autogoverno o la libera informazione, dando vita a percorsi formativi che mettano al centro l'Europa come progetto politico capace di andare oltre i vecchi confini. Essere in relazione significa costruire legami durevoli, in una reciprocità dove non ci sono donatori e beneficiari ma realtà in comunione di intenti. Tutti dobbiamo imparare ad essere europei e cittadini di una comune Terra-Patria. Se ci saranno vinti e vincitori non ne usciremo.
«... Un comune destino ci tiene qui.
Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno»
(Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaventi)
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