Nel 1923, nel pamphlet L’università di domani, che scriveva insieme al collega Piero Calamandrei, Giorgio Pasquali prendeva una posizione di netta condanna sulle pratiche di assunzione dei docenti universitari allora in vigore, ossia i singoli concorsi a cattedra svolti da commissioni nazionali elettive e finalizzati all’espressione di terne graduate di vincitori reclutabili in tutti gli atenei del Regno. Per l’autore, questo tipo di selezione era inevitabilmente «criminogeno». Se, infatti, si fosse dovuto dare pieno ascolto alle consegne e individuare per i candidati una graduatoria di merito basata esclusivamente sulla qualità riscontrata nei lavori presentati, ogni commissario avrebbe avuto la propria, e difficilmente si sarebbero raggiunti per tutte le posizioni solidi accordi neppure a maggioranza. Così, ogni commissario doveva scendere a compromessi con la propria coscienza e dichiarare il falso, eleggendo a una posizione chi non considerava adeguato a essa, pur di dare speranze a un candidato che riteneva forte ma che incontrava qualche opposizione.
La proposta alternativa presentata da Pasquali, ossia la pura cooptazione da parte delle facoltà tra i liberi docenti, era un’opzione radicale che si accompagnava ad altre riforme che avrebbero dovuto rendere strategica la cura per la qualità del corpo docente, come l’abolizione dei titoli di studio accademici in favore degli esami di Stato per l’abilitazione professionale. Era così radicale, che ne prese le distanze il coautore del volumetto in cui Pasquali la metteva per iscritto, e che non la accolse interamente neppure il ministro Gentile, a cui la pubblicazione era rivolta e che effettivamente modificò le procedure concorsuali dando più spazio alle volontà delle facoltà, in uno dei primi effetti legislativi della sua riforma a essere travolto dai «ritocchi» dopo le sue dimissioni.
In ogni caso queste pagine, precedenti di qualche mese a più noti editoriali di Luigi Einaudi sul «Corriere» sugli stessi temi, ci possono dire oggi diverse cose. In primo luogo, esse tracciano la storia di lungo periodo di una narrazione, quella sulle inefficienze del nostro reclutamento universitario, che si può dire accompagna la vita delle istituzioni accademiche fin dall’unificazione nazionale, e lo fanno ricordando che al di là dei casi in cui i documenti finiscono in tribunale per qualche possibile menda formale i problemi di gestione dei concorsi non sono minori quando non sorgono in modo così evidente criticità.
Pasquali mostra che i legittimi dubbi sulla qualità dei concorsi universitari acquistano più spessore quando vengono espressi senza indulgere esclusivamente alla condanna retorica dei "baroni"I giudizi di Pasquali, d’altro canto, mostrano che i legittimi dubbi sulla qualità dei concorsi universitari italiani acquistano maggiore spessore quando vengono espressi senza indulgere in modo quasi esclusivo alla reprimenda moralistica sui comportamenti individuali, ovvero alla condanna retorica dei «baroni» che approfittano di una posizione di potere per i loro comodi, secondo un cliché tanto comune (e forse non inefficace per esprimere alcuni casi singoli e l’autorappresentazione dell’atteggiamento dei protagonisti) quanto incompleto.
Infine, la proposta di soluzione tratteggiata dal grande filologo riporta a un’idea di università fatta di piccoli numeri, chiusa ed elitaria, tipica del mondo accademico tedesco ottocentesco a cui l’autore guardava come a un modello, ma che già negli anni Venti del secolo scorso avrebbe dovuto essere profondamente rivista per adeguarsi alle esigenze della società contemporanea. Il ritardo nell’effettuare questa revisione, che forse non è ancora del tutto avvenuta nella coscienza degli accademici italiani, è peraltro una delle cause della generale difficoltà ad affrontare in modo adeguato i problemi di funzionamento dell’università e a elaborare soluzioni adatte al contesto, che non siano meri tentativi di scopiazzare quanto messo a punto in altri Paesi europei o negli Stati Uniti.
Suggestioni di questo tipo sono del resto emerse con chiarezza negli studi storici sul reclutamento accademico italiano sviluppatisi negli ultimi anni a partire dal pionieristico lavoro di Moretti e Porciani, pubblicato nel 1997 sugli «Annali di Storia delle Università Italiane» e ampiamente ripreso, studi a cui in tempi recenti ho contribuito io stesso con saggi come quello pubblicato proprio dal «Mulino» nel 2017, o la banca dati sui concorsi a cattedre in discipline storiche dalla legge Casati agli anni Sessanta del Novecento. Credo che da questi spunti sia necessario partire per offrire nuove prospettive di analisi. Se, infatti, è incontestabile che le carriere accademiche in Italia sono difficili, farraginose e spesso chiuse, soprattutto per chi pensa di entrarvi dall’estero, comprenderne le ragioni reali potrebbe aiutare a elaborare politiche effettivamente migliorative.
Come accennato prima, un aspetto fondamentale da tenere presente è la perdurante difficoltà della politica e ancor più degli ambienti accademici, almeno fino agli anni Settanta, a comprendere che nella società contemporanea l’istruzione superiore non poteva essere un’esclusiva e selettiva opzione d’élite, ma doveva svilupparsi fino a diventare un serbatoio sociale di conoscenze avanzate socialmente diffuse. Questo ha condotto in un primo tempo, a partire dagli anni Trenta, a far crescere a ritmo ridotto gli organici del personale docente stabile, spesso ricorrendo a sempre più affollati ruoli «minori» affamati di prospettive. Successivamente, spesso, si è finiti a rincorrere i modelli stranieri nella gestione istituzionale (dalla differenziazione funzionale degli atenei in favore di pochi hub per la ricerca all’adozione di dispositivi per contesti professionali diversi ed eminentemente privatistici, come il cosiddetto tenure track), senza però mai porsi seriamente il problema dell’enorme investimento in infrastrutture materiali e immateriali che presiede all’universitarizzazione di massa nei Paesi avanzati.
La storia del reclutamento per i ruoli professorali nel nostro Paese si può così riassumere, a grandi linee, in una continua gestione dell’emergenza di fronte a uno squilibrio tra posizioni di insegnamento e ricerca disponibili e personale effettivamente necessario, con momenti di «ammorbidimento» delle criticità in occasione dei piani straordinari di assunzione (la riforma del 1980, la riapertura berlingueriana delle carriere che ha avuto luogo intorno al 2000, la promozione dei ricercatori ad associati con cui si è riusciti a far passare la riforma del dicembre 2010, i piani per gli RtdB degli ultimi tempi di cui anche chi scrive ha fortunatamente beneficiato ecc.) destinati a dare respiro a qualche classe di età, ma comunque insufficienti per soddisfare aspettative create e necessità di sistema.
Un risultato evidente di queste difficoltà è quello di rendere dolorosa la selezione, sulla base di esigenze di politica culturale della comunità professorale e/o della sede in questioneUn risultato evidente di queste difficoltà è quello di rendere solitamente doloroso un elemento insito nelle procedure di formazione della classe intellettuale di un sistema universitario dal System Althoff ottocentesco, se non da prima, cioè la selezione sulla base di esigenze di politica culturale della comunità professorale e/o della sede in questione tra concorrenti dotati di un livello di preparazione sicuramente adeguato e tra loro comparabile. E questo è tanto più chiaro nell’ambito di una legislazione che, pur tra le molte modifiche anche radicali che ha conosciuto nel corso del tempo, come già lamentava Pasquali, ha sempre dato per assunto che in una selezione per un posto sia possibile individuare senza fallo un concorrente oggettivamente «miglior»e sulla base di criteri universali e non anche di opportunità. Nel corso del tempo, impegnarsi a rendere le procedure di composizione della commissione e di preselezione dei requisiti di partecipazione più complesse nella convinzione di evitare la loro elusione ha reso solo più frequente il ricorso alla giustizia amministrativa per impugnare gli esiti, mentre le inchieste internazionali sulla permeabilità alla corruzione di istruzione e università mostravano che proprio con la semplicità dei metodi e la trasparenza nei criteri si renderebbero più facili da accettare le decisioni delle commissioni giudicatrici.
In conclusione, è innegabile che le difficoltà di un sistema di assunzioni poco alimentato sul piano delle risorse e farraginoso producano, nei singoli casi, episodi di «file» di attesa poi parzialmente risolte da assunzioni a mo’ di sanatoria di situazioni prolungatesi per anni, o di procedure di iscrizione poco «amichevoli» nei confronti di outsiders e candidati internazionali anche nel (goffo) tentativo di limitare il campo dei concorrenti, o di altri espedienti che alimentano la gustosa narrazione aneddotica da cui questo scritto è partito.
Guardando però su un piano più complessivo, si può rilevare che la qualità generale del personale accademico italiano non è affatto inferiore alle attese. Costretti dal legislatore, quasi a mo’ di sfida, a sottoporsi a procedure valutative prima ancora di sapere per che cosa i risultati sarebbero stati utilizzati, nell’ultimo decennio i docenti italiani hanno mostrato risultati di tutto rispetto. Spinti alla competizione per i fondi internazionali, i ricercatori di almeno parziale formazione italiana hanno chiarito che il problema non è tanto conquistarli quanto spenderli in maniera produttiva in un Paese che non ha investito in strutture all’altezza. Spinti alla pubblicazione internazionale dei propri risultati, gli studiosi attivi in Italia hanno mostrato una capacità di generare impatto nel dibattito scientifico su cui forse non si sarebbe scommesso.
Forse, a uno sguardo più analitico che dovrebbe essere fatto disciplina per disciplina, si potrebbe rilevare che i progetti a cui si lavora per pubblicazioni di qualità sono troppo di corto respiro e non impegnano gruppi di ricerca significativi, o che il sistema universitario italiano, al di là di eventuali sotterfugi sulla richiesta di usare il codice fiscale per il riconoscimento et similia, fatica ad attrarre chi si è formato all’estero non meno di quanto fatichi ad accogliere chi si è formato in Italia e deve trasferirsi per mancanza di posizioni. Ma non coglie, invece, quasi per nulla nel segno scaricare sulla cattiva coscienza dei «baroni» problemi sorti dalla difficoltà a investire e dal rifiuto di progettare in modo coerente una crescita quantitativa delle nostre istituzioni universitarie. È su tali aspetti strutturali che invece una politica universitaria in grado di affrontare le tare storiche del nostro Paese dovrebbe concentrarsi.
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