L’egemonia del Web ha seriamente compromesso il futuro delle società liberali? È questa la domanda di partenza del piccolo ma denso libro di Christian Rocca che prende il titolo, solo in apparenza provocatorio (Chiudete Internet), da una storia di copertina di “IL Magazine” del “Sole - 24 Ore” di un paio di anni fa. Internet (o “l’Internet”, come dicono alcuni, con l’articolo, quasi a voler interporre tra noi e il mostro una distanza ancorché minima) è il cuore della rivoluzione che ci vede protagonisti, attori largamente o del tutto inconsapevoli. Covo del cambio totale di paradigma da cui dipendono “le peggio cose”, tanto infami e dannose per gli equilibri delle nostre società così come li abbiamo studiati, a volte, e conosciuti, quasi sempre, oggi al centro delle preoccupazioni di tanti che assistono al disfacimento progressivo di un mondo che è cambiato e cambia a grande velocità. Quei tanti – che studiano, si informano, rimpiangono le scuole di un tempo e le buone maniere che nessuna netiquette ha saputo preservare – che oggi si chiedono a più riprese se davvero sia così retrogrado dirlo a piena voce: si stava meglio quando si stava peggio. O almeno quando si doveva faticare per ottenere: notizie, musica, buoni consigli; per non dire dei rapporti umani. Lo si sarà già capito: c’è di tutto in questo libretto. Le domande chiave, i temi decisivi. Forse anche troppo. Ma è a questo che deve servire un pamphlet, come si dice, che si legge come un lungo post: a ripercorrere in poche pagine domande che prima o poi, in maniera a volte superficiale e solo intuitiva a volte un po’ meno bislacca, tutti ci siamo posti, da quando Internet e il Web hanno stravolto le nostre abitudini. Modificando i comportamenti, i meccanismi del nostro lavoro, cambiando radicalmente i ritmi, imponendo nuove schizofrenie e nuove ossessioni. Riducendo sensibilmente interi settori economici e ampliandone a dismisura altri, nuovi e potenzialmente pericolosi e invasivi. Pericoli e invasività che Rocca ripercorre riallacciando i fili di un discorso inevitabilmente articolato, data la complessità dell’oggetto.
C’è la nostra contemporaneità in questo lungo discorso che non si interrompe alla fine del libro perché lascia aperte domande che non possono, oggi, avere risposte. Un discorso intriso di politica a più livelli, con tanta America – come ci si può aspettare, vista la passione e la conoscenza di quel mondo che l’autore ha – molto a proposito del suo comandante in capo, presente più che altro però come grande artista della truffa, e diverse istantanee sulla nostra Italia. Questa Italia. Che all’autore, ed evidentemente non solo a lui, non piace punto. Perché, questa nostra Italia incasinata e debole, esibisce a più riprese con sorprendente nonchalance i mali peggiori della nuova era, in gran parte tipicamente nostrani, prodotto di un mutamento antropologico ancor prima che socio-politico risalente (almeno) a Tangentopoli e ai suoi effetti. Nel mondo dell’informazione e nei rapporti, da lì in avanti via via fragilissimi e devastati, tra i contorni istituzionali e i cittadini che entro quei contorni si muovono. Non si capisce l’assenza di stupore per le “boiate pazzesche” che partono dagli scranni del governo e del Parlamento, con un populismo nostrano molto più radicato che altrove, via via giù sino al più piccolo leghista di quartiere, se non si coglie questo. Mediato da media impresentabili, che poco o nulla hanno fatto per contrastare la deriva. Prima giocando sulla rivoluzione dalle mani pulite; poi, attraverso il ventennio berlusconiano con i suoi danni profondi al nostro modo di concepirci come comunità, cavalcando quell’antipolitica travestita da lotta alla casta che ci ha portati a disconoscere il valore aggiunto di una competenza sulla scena della competizione partitica. Su questo nel libro si ritrovano molti crediti verso i media statunitensi, che là, dopo non avere capito praticamente nulla di quanto stava per accadere, continuano a svolgere un lavoro dignitoso e, a volte, decisivo per mettere il potere di fronte ai fatti. Compito certo complicato nell’era della postverità, dove le parole attribuite all’ex senatore di New York Daniel Patrick Moynihan – “tutti hanno diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti” – suonano come prediche al vento. Se il falso in quanto tale c’è sempre stato, la questione ora – mentre le fake news diventano verità e, alla fine, la verità stessa non è più riconoscibile in quanto verità – è capire chi-fa-cosa per contrastarlo, il falso. Qui, manco a dirlo, il ruolo svolto dal Web è cruciale. Verrebbe da dire, anzi: oggi è tutto. Guardando a questo, a come la rivoluzione tecnologica che si era immaginata liberatoria e democratica si stia invece trasformando in claustrofobica e antiliberale, viene da convincersi: sì, fatelo: chiudete Internet e finiamola lì. Certo non è rincorrendo i fumosi, quando va bene, dibattiti sui social che si può costruire un’informazione utile e resistente. Né i centoquaranta caratteri diventati il doppio, né tutti i thread del mondo possono diventare l’oggetto centrale per chi fa informazione. Eppure il rapporto potenzialmente produttivo tra un social come Twitter e i giornali (diciamo di carta, per intenderci; poi leggiamoli pure a video se vogliamo; ma insomma quella roba lì, che oggi dovrebbe fare la parte dell’approfondimento, nell’era della lettura veloce e, peggio, della non lettura) è oggi distruttivo. È o rischia di essere, come recita il titolo di un paragrafo rilevante, “la resa del giornalismo”.
C’è in questo libro, per finire, l’attualità italiana che non sa rinunciare all’operetta ma che rischia di trasformarsi in tragedia, in particolare per alcuni, soprattutto per alcuni. Un’attualità esondante rispetto agli argini dell’analisi che, inevitabilmente, anche in un libro uscito da pochi giorni mette a nudo la fragilità dei tempi della stampa (chi scrive lo sa bene, in questo caso). Dire che “le gaffe, le inadeguatezze e le bugie dei dirigenti dei Cinque Stelle non hanno scalfito il loro appeal elettorale” appare, quantomeno, approssimativo. Ma certo non è questo il punto del libro. Che, per dirla tutta, ha pure un sottotitolo: “una modesta proposta”. E c’è, la modesta proposta, a mo’ di conclusione. È fatta di ragionevolezza, una ragionevolezza politica e attiva, pensata per la comunità caotica (per carità non distopica, aggettivo che ricorre anche troppo spesso), con regole, etiche, fiscali, commerciali, tecnologiche. Fatta di nuovi paletti e nuovi controllori. Sono richiesti interventi urgenti e non aggirabili. In caso contrario la pena è chiara: chiudere Internet.
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