Che cos’è una chiesa? Rispondere è diventato complesso ora che gli edifici destinati al culto in Occidente sembrano il segno – quasi un segno sacramentale - di una variegata disaffezione. Chiese chiuse è scritto per questo: tentare «di dar corpo a quella speranza, di onorare quella implicita promessa» di «accendere un riflettore sulle chiese italiane» e denunciarne la dissolvenza, la graduale scomparsa dai tracciati di vita sociale e culturale di questo Paese.
Non un libro accademico: piuttosto una chiamata al pensiero su un tema che l’autore considera intimamente suo. Senza questa dimensione intima, a tratti passionale, che non sostituisce ma affianca quella professionale, la comprensione del libro rimane di superficie. Tomaso Montanari è un personaggio noto: storico dell’arte, neorettore all’Università per Stranieri di Siena, ma qui soprattutto nei panni essenziali di cittadino e di credente, praticante.
Il tema è letteralmente quello del titolo: la chiusura sempre più diffusa di tante chiese sparse sul territorio nazionale, cui resistono quelle rientranti tra i circuiti del turismo di massa. Potrebbe suonare consolatorio, ma in realtà è la conferma di una tendenza che preoccupa. Non tanto religiosamente, come fossero le battute finali del processo di secolarizzazione o le avvisaglie di come sarà il post-secolare. Quanto culturalmente, a causa dell’appiattimento che può provocare la turistificazione delle chiese e della loro privatizzazione o negazione sotto forma di chiusure o dismissioni, in particolare per la rarefazione di persone e risorse con cui provvedere al loro mantenimento.
Montanari non nomina la condizione del sacro, ma è consapevole che la misura del sacro non è più quella dei luoghi istituzionali del sacro. La denuncia del libro è anche denuncia che esso è a piede libero, al di fuori dei suoi tradizionali recinti. E così è soprattutto un testo politico
I nove capitoli di cui il libro è composto sono di lettura agile, grazie a un linguaggio competente, ricco di esempi, mai pedante. Tra di essi, a restare in filigrana è la condizione del sacro, che non è marginale ma può costituire la sintesi della disaffezione più ampia di cui questo testo prova a dare conto. Montanari non nomina la condizione del sacro, ma è consapevole che la misura del sacro non è più quella dei luoghi istituzionali del sacro. La denuncia del libro è anche denuncia che esso è a piede libero, al di fuori dei suoi tradizionali recinti. E così Chiese chiuse è soprattutto un testo politico, un appello informato sullo stato dell’arte (per usare un’espressione di utile ambiguità) e sul suo sovvertimento possibile. Montanari comincia con l’Italia sacra che crolla: con le rovine, le macerie, il degrado che diverse chiese subiscono a prova di telecamera. Non solo a giudicare dalla cosiddetta urban exploration, ma anche dal rischio facile della degenerazione richiesta da una società della trasparenza: tale infatti «è la bellezza di questi luoghi, che anche il loro massacro è capace di esercitare un’ambigua seduzione estetica». Il libro accenna per questo al carattere culturale della crisi attuale, quella «che fa ritenere noioso e poco spendibile sul piano della comunicazione il restauro di un monumento storico, mentre fa apparire eccitante e dissacratoria la sua (lucrosa) riscrittura moderna».
In questo senso il libro non ha dubbi sulle differenze che intercorrono tra il conservazionismo dei beni artistici e il conservatorismo della politica. Privo di esitazione nel parlare di sacrilegio (il sacro, ancora una volta), l’autore propone di «non vagheggiare speculatori privati, e non gettare soldi ed energie nel pozzo sterile degli eventi» investendo piuttosto «nella tutela pubblica». Il peccato originale che il libro ravvisa diventa in questo modo visibile: una chiesa, ma si potrebbe dire il patrimonio artistico in genere, è tanto più al sicuro quanto più rimane fruibile.
Anche se esistono fruibilità che perseguono scopi diversi. Non mancano chiese che si trasformano o sono inglobate in strutture ricettive di lusso, né chiese sconsacrate oggetto della trasgressione di pacchetti promozionali rivolti a chi si sposa con rito civile, dove è evidente la noncuranza che «il ragionamento che riconduce a un ambiente (già) sacro una scelta laica non sia perfettamente lineare». Ma nell’era in cui il luogo cede facilmente il passo alla location si tratta in fondo di un processo coerente, che non fa che unirsi ai molti esempi di sfruttamento commerciale di edifici di culto consacrati e non, che ospitano eventi slegati da fini storici o cognitivi (da certe mostre alle sfilate) e pensati invece «per sedurre, stordire, intrattenere».
Un punto importante del libro è che il quadro entro cui tutto ciò avviene dice un’idea di Chiesa. Un’ecclesiologia non può privarsi dei luoghi, come un luogo di culto non può privarsi di un’ecclesiologia. Ciò significa una relativizzazione dei tentativi di separare dimensione culturale e religiosa
Un punto importante del libro di Montanari è che il quadro entro cui tutto ciò avviene dice anche un’idea di Chiesa. Un’ecclesiologia non può privarsi di luoghi che la rendano praticabile, né un luogo di culto può privarsi di un’ecclesiologia che lo renda possibile. Per Montanari significa relativizzare i tentativi anche maldestri di separare la dimensione culturale delle chiese da quella religiosa, poiché in Italia esse «sono sempre state la prosecuzione delle piazze con altri mezzi: luoghi pubblici, luoghi in cui entrare anche senza un perché». E ciò in forza di una caratteristica tutta o soprattutto italiana che ne ha fatto il segno di un modo di vivere, prima che di un’identità o un’appartenenza. La questione è evidentemente più attuale che mai, dato l’abuso cui i simboli cristiani sono ultimamente soggetti, e non solo nel nostro Paese. Ma non è questo l’unico revisionismo esistente se si ha presente il difficile percorso dell’adeguamento liturgico dopo il concilio Vaticano II (1962-1965), non di rado trasformatosi «nell’occasione per un regolamento di conti con la storia» e a proposito del quale il libro cita per l’appunto il bisogno di una rinnovata consapevolezza storica.
I due capitoli conclusivi costituiscono la parte propositiva del testo. Il primo adotta una lente costituzionale, grazie alla quale si può già provare a rispondere alla domanda su che cosa sia una chiesa. Montanari è persuaso che ci siano altri motivi oltre quello religioso per attraversarne le soglie che attengono all’umanità stessa: essere «parte di una comunità di eguali, che prende forma e si riconosce in uno spazio pubblico», uno spazio «in cui non siamo né fedeli, né lavoratori, né clienti e consumatori, né pubblico pagante». Le chiese in Italia sono anche questo, mai «una scatola vuota» alla quale cercare di dare senso.
L’ultimo capitolo, infine, abbraccia una prospettiva evangelica. Si tratta invero di righe sobrie, principalmente interessate alla convinzione che la tutela di un bene culturale non dipenda dal bene in sé, ma dalla sua capacità di determinare le vite delle persone che vi entrano a contatto. Ciò spiega la necessità di una visione integrata, che mostri che non solo i soggetti fanno i luoghi in cui vivono, ma anche sono fatti da essi. Per questo andrebbe preso sul serio che «forse nessuna organizzazione quanto la Chiesa cattolica, in comunione con le altre Chiese cristiane e in dialogo con le altre confessioni, potrebbe oggi costruire una narrazione in cui prenda corpo l’idea di patrimonio culturale dell’umanità». E qui si avanza una proposta di rinuncia, da parte della Chiesa, dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali. Essa ne conserverebbe il finanziamento pubblico, spostando però contenuti e docenti nelle antiche chiese d’Italia, che rimetterebbero in circolo la conoscenza.
La complessità del tema, su cui pende ancora la questione irrisolta di quale epistemologia necessiti il fatto religioso (se possa bastare la storia, se vada coinvolta la teologia, come includere le scienze umane), dovrebbe richiedere che si sfoci in una riflessione più ampia e partecipata.
In fondo, il tema è un’altra declinazione del rapporto tra l’esperienza religiosa e lo spazio fisico.
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