Un libro divulgativo della collaudata coppia Acemoglu-Robinson (Daron Acemoglu e James Robinson, La strettoia: come le nazioni possono essere libere, trad. it. Il Saggiatore, 2020) è un piacere da non perdere: avevo letto il precedente (Perché le nazioni falliscono, sempre tradotto dal Saggiatore, 2013) e immaginavo che cosa avrei trovato. Nonostante la mole del volume (quasi 800 pagine) – anzi proprio per questa – ho trovato un libro facile e interessante su un tema di straordinaria complessità e importanza: perché alcuni Paesi, nazioni, Stati, comunità prosperano economicamente e garantiscono libertà e benessere a coloro che ne sono membri, mentre altri invece “falliscono”. La mole del volume spiega la facilità di lettura: le cause del successo o del fallimento sono infatti illustrate (spiegate?) da dozzine di casi storici esplorati con un dettaglio sufficiente a suscitare l’interesse e la curiosità del lettore, da quelli più noti di moderni Stati europei a quelli di Paesi lontani nel tempo e nello spazio.

Lettura facile e divertente, dunque. Ma forniscono Acemoglu e Robinson (AR) indicazioni sufficienti – insomma: “ricette” – per raggiungere condizioni desiderabili di libertà individuale e benessere? La mia impressione è che non solo non ne forniscano, ma che escludano lo stesso il proposito di fornirle. Lo schema teorico utilizzato, dovendosi adattare ad una estrema varietà di situazioni storiche, è inevitabilmente sotto-determinato. Più a fondo, AR dubitano che, anche se si limitassero a pochi casi strutturalmente molto simili – ad esempio ai Paesi democratici e industrialmente avanzati – la “ricetta” che funziona in un caso funzionerebbe in un altro: la storia è ricca di sorprese e solo a posteriori si capisce perché in un caso ha funzionato e in un altro no. Nonostante le evidenti somiglianze con il librone di Piketty (Capitale e ideologia, trad. it. La Nave di Teseo) lo spirito dei due libri è profondamente diverso: Piketty vuole arrivare a ricette precise e radicali; AR si fermano molto prima. Vogliono solo convincerci – attraverso un’analisi di casi storici ancor più ampia di quella dell’economista francese e di uno schema teorico molto più semplice – che il progresso è frutto di una società libera e di uno Stato che ne asseconda la libertà e ne attiva le energie.

Per AR le condizioni che conducono a libertà e benessere dei cittadini sono due: uno Stato autorevole ma non dispotico e una società esigente nel reclamare libertà per i propri membri: libertà dall’oppressione dello stesso Stato, ma anche libertà da minacce da parte di altri Stati o presenti nella società stessa: dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne. La storia moderna della libertà inizia con la formazione dei grandi Stati nazionali: sono questi il riferimento del Leviatano di Hobbes, scritto in un momento in cui l’Inghilterra era preda di gravi disordini politici e sociali. Il Leviatano non è certo il modello di uno Stato liberale, ma potenzialmente era adatto a sventare le due più grandi minacce che gravavano sulle società pre-moderne: la minaccia esterna e quella interna, l’aggressione da parte di altri Stati e l’insicurezza sulla conservazione della propria vita e dei propri beni dovuta all’assenza di un efficace sistema legale e giudiziario. In mancanza di un Leviatano la vita tende a essere, per riprendere la più celebre citazione di Hobbes, solitary, poor, nasty, brutish and short. In molte circostanze, però, lo Stato non si limita a tutelare la difesa esterna e l’ordine interno ma, disponendo del monopolio dei mezzi di coercizione, lo usa per opprimere i cittadini e avvantaggiare i ristretti gruppi che lo controllano: il Leviatano ha una innata tendenza a diventare dispotico.

Ma non è possibile controllare la violenza e l’insicurezza senza un Leviatano, senza un forte potere centrale che monopolizzi la violenza legittima? AR dedicano molta attenzione ad un altro modo di reprimere la violenza e garantire condizioni di sufficiente sicurezza interna: la “gabbia di norme”. Questa soluzione era diffusa in società primitive in cui era forte l’avversione per chiunque accumulasse un grande potere: ingabbiare la società in una fitta rete di norme e consuetudini che limitassero l’uso della violenza. Ma queste non erano meno oppressive per la libertà individuale di quelle che avrebbe imposto un Leviatano dispotico ed erano meno efficaci di un forte potere centrale nello sventare il pericolo dell’anarchia: questo spiega perché la via che presero nell’evo moderno gran parte degli Stati più grandi e più forti fu quella del Leviatano. In un piccolo angolo di mondo, l’Europa, si erano però create le condizioni perché le sue tendenze più dispotiche potessero essere controllate: merito soprattutto della tradizione giuridica romana, tramandata e adattata dalla Chiesa, e delle consuetudini democratiche dei popoli germanici che avevano abbattuto il più grande impero dell’antichità. Seguendo un’interpretazione diffusa, sono queste le due lame – un potere statale forte che si avvale di strumenti giuridici universalistici, e una società forte in cui non si era persa la tradizione germanica di una condivisione del potere – di quella forbice che ha consentito di tagliare e scartare le manifestazioni più dispotiche del Leviatano. La trasformazione verso la società e gli Stati contemporanei avviene con le rivoluzioni politiche e la rivoluzione industriale tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, rivoluzioni che liberano le energie sociali prima represse dall’Ancien Régime: le condizioni erano particolarmente favorevoli in Gran Bretagna, ma gran parte dei Paesi europei fu in grado di seguirne l’esempio e costruire nell’Ottocento i primi Stati liberali. Nella seconda parte del Novecento alla componente liberale si aggiunse quella democratica sino alla sintesi liberal-democratica di oggi: una sintesi difficile, precaria, minacciata da conflitti internazionali e interni ai singoli Stati.

Per raffigurare il processo di “incatenamento” del Leviatano – e dunque di progresso o regresso sulla via di una sempre maggiore libertà dei cittadini – AR fanno spesso uso di un grafico in cui sull’asse verticale è indicato il potere dello Stato e su quello orizzontale il potere della società: quando crescono insieme (in una fascia più o meno larga intorno alla bisettrice dell’angolo di partenza del grafico) siamo nel “corridoio stretto” che dà il titolo al libro. La tesi è che il progresso sulla via della libertà e del benessere avviene quando entrambi i poteri si rafforzano, quando la società è mobilitata e obbliga il Leviatano ad assumersi sempre nuovi compiti e poteri per venire meglio incontro al benessere e alla libertà dei cittadini. Mobilitata e vigile: attenta a che lo Stato non approfitti del suo maggior potere per opprimere dispoticamente i cittadini a favore delle élite che inevitabilmente si formano anche in condizioni di democrazia politica. Questa rincorsa ed equilibrio di velocità tra società e Stato è battezzato da AR come “effetto Regina Rossa”, da quel passaggio di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll in cui Alice è costretta a correre per seguire la corsa della regina rossa, starle accanto e parlare con lei, proprio come Stato e società devono correre insieme ed appaiati. (Nel romanzo entrambe, la regina e Alice, corrono per restare esattamente nello stesso punto: il nonsense di Lewis Carroll sta in questo. Non è così nel caso del nostro grafico: Stato e Società restano appaiati ma vanno avanti, raggiungendo equilibri sempre maggiori di libertà e benessere). Il narrow corridor, la “via stretta”, può avere allargamenti o strettoie per vicende storiche nazionali o internazionali che è molto difficile prevedere. Ma titolare il libro “La strettoia” invece di “Via Stretta” crea confusione: è l’unico appunto che mi sentirei di fare a una traduzione eccellente.

Restare nel corridoio e assicurare un continuo progresso di libertà e benessere è difficile. Risulta difficile entrare, partendo da condizioni di Leviatano dispotico o Leviatano assente; ed è facile uscire, così ricadendo in condizioni in cui il Leviatano torna ad essere dispotico o diventa troppo debole, e la società sviluppa tendenze anarchiche e conflittuali. La tesi centrale di AR – l’importanza di uno Stato autorevole ed efficiente e di una società composta da individui liberi di scegliere il proprio destino, al fine di assicurare benessere e crescita economica – viene affidata all’analisi storica di dozzine di casi disparati, tratti dalle più remote società agricole e dai più moderni Stati contemporanei: ancor più numerosi se si sommano i casi illustrati nel loro libro precedente. Come prova “scientifica” di un’ipotesi ammassare grandi quantità di casi concordanti non è certo una scelta rigorosa, se solo si potesse fare molto meglio a proposito del grande problema che AR si sono posti. Ma non potrebbero esserci casi che smentiscono l’ipotesi e che AR non considerano o di cui travisano il significato? E comunque, anche se si è persuasi che molto meglio non si può fare e che ricette dettagliate non si possono fornire, qualche indicazione in più è proprio impossibile darla? Affronto con un esempio questo secondo interrogativo, per poi passare al primo, che è più serio e insidioso.

Come cittadino di uno Stato palesemente inefficiente ho letto con ovvio interesse le pagine che AR dedicano all’Argentina. L’analisi inizia con una intervista a persone che stanno pazientemente facendo la fila per entrare in un ufficio pubblico: sembra di essere in Italia! E prosegue con un confronto tra la burocrazia argentina e quella descritta da Weber: efficiente, professionale, imparziale. L’inefficienza e la corruzione sono molto diffuse tra i Paesi in via di sviluppo e non ricadono nelle categorie del Leviatano dispotico, o assente o incatenato: il Leviatano non è assente, anzi è molto ingombrante; non è dispotico ma disorganizzato e incostante. E ovviamente non è incatenato in uno Stato e in una società forti. Dunque è opportuno creare una nuova categoria, quella del “Leviatano di carta”, un Leviatano che è in realtà debole e indebolisce la società. L’analisi poi prosegue con altri casi sudamericani e con riferimenti a molti Paesi in via di sviluppo afflitti dalla stessa piaga. Una piaga che però affligge anche Paesi democratici a sviluppo assai più avanzato, il nostro in particolare: non è allora il caso di porsi il problema di come possa essere debellata in diversi contesti e se e quando ciò possa avvenire in condizioni di democrazia liberale? Il caso di Singapore rientra con difficoltà in questa categoria, ma quelli di Taiwan e della Corea del Sud ci rientrano più agevolmente.

Siamo così arrivati al primo e più insidioso interrogativo. Come chi scrive, AR sono due studiosi che condividono una visione politica di democrazia liberale. Un conto è però un’aspirazione politica, un altro un’analisi scientifica. Nel caso della Cina moderna – un caso ovviamente cruciale – AR non possono non riconoscere il miracolo economico e l’effettivo scatenamento di energie individuali iniziati con le riforme di Deng Xiaoping, nonché il ruolo che in esse ha giocato un ferreo e non democratico controllo dello Stato da parte dell’élite comunista. Essi sono però convinti che questa crescita non potrà durare a lungo perché le tendenze dispotiche rivelate dalla lunga storia cinese non consentiranno di incatenare stabilmente il Leviatano mediante istituzioni capaci di far marciare la società allo stesso passo: dunque istituzioni politiche liberal-democratiche. Quanto è affidabile questa previsione? Quanto è fondata sui dati effettivamente raccolti e su una solida teoria che li organizza? Quanto, invece, essa discende direttamente dalle loro concezioni politiche? AR sono tra i migliori studiosi delle teorie dello sviluppo economico e politico, e lo rivelano le acute critiche alle teorie prevalenti, da quelle marxiste a quelle della modernizzazione. La loro visione scettica nei confronti di teorie che sfociano in filosofie della storia o di ricette di crescita dettagliate si avvale – per quanto posso giudicare dai pochi casi in cui sono meno ignorante – delle migliori indagini storiche disponibili in letteratura. E si sono convinti che, in via generale, non si può dire molto di più di quanto essi dicono: la contingenza e l’imprevedibilità (l’ironia, come amava dire Siro Lombardini) della storia non consente altro.

Ma la loro previsioni sulla Cina contrastano con lo scetticismo e la cautela che essi adottano in via generale. Un altro grande studioso dello sviluppo, anch’esso di orientamento politico liberal-democratico, mostra assai bene le contraddizioni dell’esperienza di sviluppo cinese ma non si azzarda in previsioni così nette, ben consapevole che la storia, nella sua imprevedibilità, potrebbe smentirle: Branco Milanovic, Capitalismo contro capitalismo (tradotto da Laterza).

 

[Questo intervento è uscito originariamente sul supplemento culturale del “Corriere della Sera”, “La Lettura”, il 9 settembre 2020.]