Se avete gusti perversi e volete seminare zizzania nei gruppi genitori su Whatsapp, annunciate che a breve i vostri pargoli saranno sottoposti a test standardizzati per verificarne le competenze: l’effetto «apriti cielo e spalancati terra» sarà garantito. Reazioni scomposte alla prospettiva di prove standardizzate si osservano non solo nel chiacchiericcio digitale, ma anche nel dibattito accademico sull’argomento: la polemica sui test Invalsi, ad esempio, è vecchia quanto i test stessi, e non accenna a placarsi. Il recente contributo di Alberto Baccini e Rossella Latempa su queste pagine ne costituisce un esempio. Nello scagliarsi contro le prove Invalsi, Baccini e Latempa rivendicano il carattere politico del problema. Hanno ragione: la decisione di misurare le competenze degli studenti è in primis una scelta politica. Solo che loro la ritengono sconsiderata e disastrosa, mentre ad altri, scrivente incluso, appare sensata ed encomiabile, benché perfettibile.
Vale la pena riflettere sui termini in cui si affronta la questione. Nell’opporsi alla misurazione a livello nazionale delle competenze degli studenti, si possono scegliere tre diversi campi di battaglia: (i) rifiutare tout court la logica della misurazione universale e uniforme, contestandone i presupposti di fondo; (ii) preoccuparsi delle conseguenze di tale misurazione, sostenendo che i rischi sarebbero superiori ai benefici; (iii) criticare la bontà degli specifici strumenti di misurazione proposti, mostrandone in modo analitico difetti e ambiguità. Spesso chi contesta le prove Invalsi si concentra sulla prima dimensione: si sostiene cioè che l’idea stessa di misurare con metodi uniformi le competenze degli studenti sia esecrabile, inattuabile, o entrambe le cose.
È in quest’ottica che si spiegano i toni vagamente apocalittici usati da Baccini e Latempa, che altrimenti parrebbero esagerati e fuori luogo: sono invece funzionali a lanciare un’offensiva radicale contro la «valutazione censuaria standardizzata», prima stigmatizzata come superflua e poi ribattezzata «valutazione centralizzata di Stato», sottolineando come su questo «l’agenda politica ha trovato una solida sponda nell’opinione pubblica e nel sistema dei media [con] il consenso pressoché unanime del mondo politico-sindacale e anche dell’accademia». Un animo semplice potrebbe ritenere tanta unanimità un segno che la misurazione censuaria delle competenze non è poi, a conti fatti, un’idea malvagia.
Ma non è questo il parere di Baccini e Latempa, che al contrario suggeriscono un oscuro nodo di interessi nefasti: se non una vera e propria congiura a favore dell’Invalsi, quanto meno un pericoloso Zeitgeist che porta ad abbracciare acriticamente la valutazione standardizzata, quando invece sarebbe saggio opporvisi. Senonché in Italia solo pochi coraggiosi osano farlo, giacché i poteri forti lo vietano, novelli Virgilio che, al minimo cenno di obiezione, sbottano: «Invalsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare!».
Questa caratterizzazione del dibattito sfiora la caricatura: il pensiero unico paventato da Baccini e Latempa è un miraggio, come il loro stesso intervento, e molti altri da loro citati, dimostrano in modo eloquente. Pare di assistere alla costruzione di un bersaglio di comodo: si rappresenta il fronte a favore delle prove standardizzate come minaccioso leviatano, per suscitare paura e conquistare simpatie del coraggioso manipolo di critici che vi si oppone. Ma il manipolo è legione, e lo strapotere della temuta «valutazione centralizzata di Stato» assai dubbio: tanto è vero che i test Invalsi, oltre a essere saltati nel 2020 (per tutti) e nel 2021 (per la II secondaria di secondo grado), non sono mai diventati obbligatori per l’ammissione all’esame di Stato, nonostante lo preveda il D.L. 62 del 13 aprile 2017, grazie alla puntuale deroga delle ordinanze ministeriali emanate negli anni successivi. Il che non implica che l’obbligatorietà di tali prove per l’esame siano le Termopili su cui immolarsi fino all’ultimo uomo, ma mette in crisi il mito del pensiero unico pro Invalsi, di cui si fatica a scorgere traccia negli orientamenti prevalenti della scuola italiana.
Nella retorica della critica alla "valutazione censuaria standardizzata", l’aggettivo "standardizzata" viene usato in accezione negativa, accompagnandolo a «censuaria». Questi termini evocano una cieca, spietata livella, insensibile alle differenze individuali e protesa a ridurre gli studenti a numeri
Nella retorica della critica alla «valutazione censuaria standardizzata», l’aggettivo «standardizzata» viene usato in accezione negativa, accompagnandolo al suo complice di misfatti, «censuaria». Questi termini servono a evocare una cieca, spietata livella, insensibile a qualunque differenza individuale e protesa a ridurre gli studenti a numeri. Tutti gli studenti, badate, non più un mero campione: da ciò la polemica sul passaggio della misurazione da campionaria a censuaria, avvenuto per le prove Invalsi nel 2008. Un fervore matematico e metrico, in cui le complessità dell’essere umano sono ridotte a mera misurazione monodimensionale, appiattendo tutto senza capire nulla.
Quando però ci spostiamo dal piano retorico a quello sostanziale, occorre valutare due cose, per giustificare simili lagnanze sulle prove standardizzate: innanzitutto, se davvero sia ambizione così turpe misurare le competenze di tutti gli studenti usando gli stessi strumenti, hỳbris pedagogica contemporanea da condannare senza appello; in secondo luogo, se così non fosse, toccherà fare lo sforzo di leggerle, queste prove, per farsi un’idea di quanto retrograde o illuminate esse siano nei fatti.
Cominciamo dalla prima questione: è davvero un proposito infame voler misurare le competenze in modo universalistico, cioè applicando a tutti lo stesso metro? Chi ne è convinto si appella spesso a due ragioni: da un lato, la critica all’uso di prove identiche per persone diverse, che minaccerebbe la valorizzazione delle differenze individuali; dall’altro, l’ostilità alla centralizzazione della valutazione, che viene tolta a chi ne avrebbe competenza (gli insegnanti) in favore di un soggetto terzo (nel caso specifico, l’Invalsi), segnalando sfiducia e scarso rispetto per i lavoratori della scuola. Si tratta di preoccupazioni legittime, che tuttavia nascono da un equivoco: l’idea che la misurazione fatta con prove standardizzate e la valutazione effettuata dagli insegnanti servano ai medesimi fini. Non è così, e neppure deve esserlo: al contrario, è essenziale che questi due momenti rimangano distinti, e proprio per questo le prove Invalsi (o test analoghi) devono svolgersi in autonomia rispetto all’operato dei docenti.
Per convincersene, basta osservare che valutazione e misurazione sono due cose ben diverse: la prima prevede un giudizio di valore, sensibile al contesto e alle differenze individuali; la seconda si limita a registrare fatti e tratti oggettivi, per quanto possibile, lasciando ad altri il compito di valutarli. Le prove Invalsi si occupano di misurare le competenze, mentre ai docenti spetta valutare gli studenti. Ogni bravo insegnante sa benissimo che valutare lo studente non è il fine dell’attività educativa, bensì un momento strumentale: detto in parole povere, il voto e il giudizio sono utili solo nella misura in cui aiutano lo studente a fare meglio – riconoscendone i risultati, spronandolo sulle aree di difficoltà, confortandolo sui margini di miglioramento. Questa valutazione non serve a certificare l’oggettività, bensì a sviluppare la soggettività, giacché il miglioramento dell’individuo si misura rispetto alla sua condizione di partenza, e non potrebbe essere altrimenti. Su questo tipo di valutazione, di tipo maieutico, il docente è autorità sovrana, nel bene e nel male, in barba a qualunque istanza universalistica.
Ma prove come i test Invalsi non servono a fare valutazione maieutica: al contrario, l’unica valutazione di cui si occupano è quella delle competenze, non delle persone, in un’ottica certificatoria, volta cioè a misurare qualcosa di oggettivo, senza che questo necessariamente comporti un giudizio di valore (positivo o negativo) sul percorso educativo del soggetto. «E allora a cosa serve?», obietterà qualcuno. La risposta è ovvia: serve a ottenere informazioni sulle effettive competenze maturate.
Un paio di esempi di fantasia bastano a illustrare la distinzione. La giovane Guiying, arrivata dalla Cina con la famiglia pochi mesi or sono, dimostra una competenza molto limitata nell’uso della lingua italiana, ma ciò non costituisce nota di demerito al suo impegno scolastico, giacché è comunque migliorata moltissimo in poco tempo, grazie a una dedizione costante; tuttavia è rilevante misurare con precisione le effettive competenze linguistiche di Guiying (che non coincidono e non devono coincidere con il suo voto di italiano), giacché servirà a lei, ai suoi insegnanti e all’intero sistema scolastico per supportare successivi interventi. All’estremo opposto, il suo coetaneo Evaristo dimostra ben superiori competenze linguistiche, che però non gli garantiscono affatto una valutazione più alta da parte degli insegnanti, giacché Evaristo fa poco per migliorare e si accontenta di vivere di rendita, provenendo da famiglia benestante e di livello socio-culturale elevato: il che non toglie che Evaristo in effetti l’italiano lo maneggi bene, e saperlo non fa male a nessuno. Questi esempi invitano a non confondere le competenze effettive con ciò che ne ha causato lo sviluppo: un livello pessimo può essere un grande traguardo, come nel caso di Guiying, e uno ottimo può risultare non meritevole di encomio, come capita a Evaristo. Ciò non toglie che fra le rispettive competenze esista una differenza e sia utile tenerne traccia.
L’individualità degli studenti e l’autonomia dei docenti sono minacciate solo quando i test standardizzati diventano parte integrante della valutazione maieutica: finché si limitano ad adempiere alla propria funzione, cioè misurare in modo preciso e uniforme le competenze degli studenti, non solo non rovinano la missione educativa della scuola, ma al contrario le offrono importanti strumenti conoscitivi. È in tal senso che vanno letti gli appelli a un «cessate il fuoco» contro le prove standardizzate che provengono dall’interno del mondo della scuola, come quello lanciato dall’associazione Condorcet sulle pagine di questa rivista.
Accertato che le prove standardizzate non sono il male assoluto, resta da vedere se non ci sia qualcosa di sbagliato nella specifica incarnazione che ne danno i test Invalsi
Accertato che le prove standardizzate non sono il male assoluto, resta da vedere se non ci sia qualcosa di sbagliato nella specifica incarnazione che ne danno i test Invalsi. Magari, guardandoli da vicino, ci accorgeremo che sono talmente arretrati, nozionistici, bislacchi e mal congeniati, da meritarsi tutto il livore di cui sono spesso oggetto. Ecco, appunto, guardiamole un attimo da vicino, queste prove Invalsi. Perché uno degli aspetti curiosi del dibattito sull’argomento è che quasi mai l’oggetto del contendere, cioè le prove, viene esposto allo sguardo critico del pubblico. Capita così di leggere intere filippiche, pro o contro i famigerati test, senza che venga illustrato neppure un singolo esercizio, anche solo a titolo di esempio. Il che può alimentare il cinico sospetto che si parli delle prove Invalsi senza averle (letteralmente) mai viste.
Vederle, invece, è molto semplice, e invito tutti a farlo: dal sito dell’Invalsi si può accedere a vari materiali, inclusi numerosi esempi dei tanto discussi test, divisi per gradi scolastici e aree disciplinari. Se prendiamo in esame la prova di italiano per la terza media, A.S. 2018-2019, siamo dapprima posti di fronte a un breve testo narrativo (515 parole), preso dal romanzo Il balordo di Piero Chiara. Seguono alcune domande per misurare la comprensione del testo a livello globale (quando si svolgono gli eventi, le intenzioni manifestate dai personaggi, chi fa cosa) e la corretta interpretazione di specifiche frasi o espressioni (individuare il soggetto implicito di un verbo, derivare dal contesto il significato di parole desuete, scegliere la corretta parafrasi di specifiche frasi, indicare sinonimie). Domande analoghe vengono poi poste in relazione ad altri testi di diversa natura: un pezzo di taglio scientifico-informativo sull’acqua come risorsa indispensabile (380 parole, corredato da due grafici), un brano storico su Galileo Galilei e il metodo scientifico (546 parole), e la premessa di Konrad Lorenz al suo libro L’anello di Re Salomone (684 parole). Il testo su cui si chiede di riflettere rimane visibile allo studente mentre deve rispondere: molte domande sono a risposta chiusa, ma ve ne sono anche a risposta aperta.
Dopo questa parte di interpretazione testuale, la prova è completata da tre domande sul lessico e cinque di riflessione sulla lingua. Scorrendole, si nota come vengano sondate diverse abilità richieste per un buon uso della lingua: identificare una parola partendo dalla definizione o dagli usi polisemici in contesti diversi, distinguere differenti registri linguistici, comprendere il referente dei pronomi, discriminare fra forma attiva e passiva del verbo, analizzare i rapporti fra soggetto e predicato in una semplice frase, riflettere sulla morfologia di parole composte. Ogni singolo esercizio è piuttosto facile ma non banale, chiaramente ideato per indagare vari aspetti della competenza linguistica.
Per ragioni di spazio non mi dilungo sugli esempi delle prove di matematica e inglese, ma invito i lettori ad analizzarli da soli: si accorgeranno che il buon senso regna sovrano nella progettazione di tali test, in tutte le aree disciplinari e per tutti i gradi di scolarizzazione. Le istruzioni sono chiare, i materiali sono scelti con cura, le domande sono formulate senza ambiguità, il grado di difficoltà appare adeguato, e del tanto paventato nozionismo non si vede l’ombra. In verità, tutta l’impostazione delle prove Invalsi è improntata a una pedagogia progressista, tesa a osservare ciò che lo studente sa fare, non ciò che sa: le competenze, appunto, non le nozioni.
Nel caso della prova di italiano che vi ho descritto, confesso di parlare con un certo interesse personale: ho un figlio in seconda media e sarei molto preoccupato se lui non fosse in grado di rispondere correttamente a queste prove. Per dirla tutta, sarei piuttosto inquieto se persino suo fratello, al momento in quarta elementare, non se la cavasse egregiamente con almeno alcuni di tali quesiti… Al netto delle mie ambizioni di genitore, mi pare evidente che le prove sono costruite per misurare competenze che è ragionevole, anzi doveroso, voler sviluppare negli studenti, e il cui monitoraggio costituisce un valore irrinunciabile. Monitoraggio, giova ripeterlo in conclusione, che non deve necessariamente influenzare la valutazione degli studenti data dai docenti: non perché gli insegnanti non siano in grado di misurare tali competenze, bensì perché la loro valutazione è volta ad altri fini e sensibile anche ad altri fattori, e tale deve rimanere. Diamo alla scuola ciò che è della scuola, e all’Invalsi ciò che è dell’Invalsi.
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