Che un nuovo governo, a guida non leghista, debba disfarsi del decreto sicurezza, approvato alla vigilia della crisi nella sua versione bis, è fuori discussione. Lo è, prima di tutto, per una questione morale e civile, che va ben oltre gli aspetti tecnici e operativi della legge, e delle negative conseguenze che essa ha sulla gestione dei flussi migratori irregolari. E infatti la demonizzazione delle Ong e delle loro operazioni di salvataggio in mare, assimilate a complici delle organizzazioni criminali dei trafficanti di esseri umani, trova la sua certificazione nei divieti e nelle sanzioni imposte alla loro attività. Certo non è da escludere che vi siano state irregolarità o forzature che è giusto reprimere con i mezzi che la legislazione ordinaria mette a disposizione dello Stato. Ma se si seguisse la stessa logica, si finirebbe col demonizzare l’azione delle decine di migliaia di organizzazioni senza fini di lucro che operano nel campo dell’educazione, del soccorso ai poveri, del sostegno ai disabili, del recupero degli emarginati. Alcune di queste hanno commesso abusi e reati, ma sarebbe folle delegittimare l’opera dell’intero settore, alimentando il discredito nell’opinione pubblica. Fare questo – come si sta facendo nei confronti delle Ong che operano in mare – significa sgretolare i principi di solidarietà, fondamento di ogni società civile.

La “chiusura dei porti” è una misura da Paese in guerra; l’umiliazione della Guardia costiera rischia di demotivare un’istituzione ben meritoria dello Stato; la compromissione della legge del mare è un’inaccettabile violazione di principi antichi e condivisi nel mondo. Sono, questi, alcuni frutti avvelenati del decreto sicurezza e della falsa e distorta narrazione che ne ha giustificato l’approvazione. Ma i danni dei decreti sicurezza non si fermano qui. Si consideri per esempio l’abolizione della cosiddetta “protezione umanitaria” (prevista dal primo decreto approvato lo scorso anno), concessa ai migranti che non hanno titolo a presentare domanda di asilo, ma costretti ad abbandonare il loro Paese per fondate ragioni. Con un tratto di penna si sono trasformati i profughi in irregolari, determinando la loro espulsione dai centri di accoglienza (Cas) e ingrossando così le fila degli emarginati allo sbando. E agli stessi Cas sono stati tagliati i fondi destinati all’integrazione (corsi di lingua e altro). Inoltre è stata indebolita la funzione degli Sprar, strumento ben sperimentato per l’integrazione dei migranti, e adesso riservato a coloro che hanno ricevuto protezione internazionale. Si aggiunga che il defunto governo non è stato capace – nonostante gli annunci roboanti – di aumentare i rimpatri degli irregolari. Annunciare la chiusura dei porti è facile, ma aumentare il numero dei rimpatri – e la quota di questi che avviene volontariamente – richiede una difficile e complessa azione diplomatica da parte di ministri che frequentino la cancellerie dei Paesi all’origine dei flussi più che gli stabilimenti balneari. E che non lascino vuota la sedia nelle riunioni con i ministri dell’Interno dell’Unione, come accaduto nell’ultimo disgraziatissimo anno. Il numero degli irregolari emarginati e allo sbando aumenta; nonostante i porti chiusi gli irregolari sbarcano nelle coste libere, o arrivano via terra attraverso il confine con la Slovenia. Nel contempo si è indebolita la capacità dello Stato di gestire l’irregolarità. L’abolizione del decreto sicurezza – che ha evidenti profili di incostituzionalità – o, comunque, la sua sostanziale riscrittura, non è dunque negoziabile ed è condizione necessaria per costituire un nuovo governo, che si vorrebbe “di legislatura”.

La questione migratoria non si limita, però, alla gestione dei flussi dei profughi e degli irregolari. È infatti urgente intraprendere una vigorosa azione nell’Unione europea per ottenere una profonda  riforma del Trattato di Dublino, per assicurare una coerente applicazione del diritto d’asilo, per stabilire i criteri per un’equa distribuzione tra i Paesi della Ue degli oneri derivanti dall’accoglienza. Viene da suggerire a un nuovo governo di candidare un italiano per il ruolo di Commissario europeo con competenze sulle migrazioni – un portafoglio forse meno prestigioso di altri, ma politicamente parecchio rilevante, se guarnito delle giuste deleghe. E, in ambito europeo, il nuovo governo dovrebbe farsi promotore di una politica della cooperazione che torni ad integrare la questione migratoria nei piani di sostegno allo sviluppo, superando il livello puramente securitario prevalente fino ad ora. Non si tratta solo di formare e sostenere la locale polizia di frontiera o di fornire mezzi tecnici per controllare i confini dei Paesi di origine dei migranti irregolari, ma anche di riaprire i canali per la migrazione legale, di facilitare i flussi delle rimesse, di attrarre i giovani nelle nostre università, di aiutare la formazione in loco di candidati alla migrazione.

Nel dossier migrazioni non c’è solo il tema del controllo dei flussi, dei criteri per operare la protezione internazionale per i profughi, della gestione dell’irregolarità. C’è anche il nodo irrisolto delle politiche della migrazione legale, di cui l’Italia avrà straordinario bisogno nei prossimi decenni data la continua implosione demografica del Paese. Se le frontiere rimanessero ermeticamente chiuse, la popolazione giovane e adulta sarebbe destinata a un rapido, ulteriore declino: tra il 2020 e il 2040 i giovani tra i 20 e i 40 anni diminuirebbero di due milioni e mezzo, e gli adulti tra i 40 e i 60 di ulteriori cinque milioni e mezzo. Non c’è dubbio alcuno che il nostro Paese, se vuole evitare che alla spirale demografica negativa se ne associ una sociale ed economica, avrà bisogno di immigrati, di molti immigrati. Ma quanti, quali, quando e come? Un governo “di legislatura” non può rimuovere la questione migratoria: una coalizione con visioni differenti sull’argomento morirebbe in fasce.