Che cosa succede ai Democratici americani? A oltre un anno dalle elezioni presidenziali, il Partito democratico non sembra ancora aver digerito la sconfitta. I Democratici, come peraltro molti progressisti in Occidente, sono in crisi di identità e profondamente divisi tra loro.
Questi problemi hanno avuto origine ben prima delle elezioni presidenziali: già nel 2012 Obama perse milioni di voti rispetto al 2008 e, sotto la sua presidenza, la maggioranza repubblicana alla Camera divenne la più forte in settant'anni; a livello statale il Gop (Grand Old Party, ossia il Partito repubblicano) non è mai stato così forte dagli anni Trenta, mentre i Democratici hanno perso oltre 1.000 seggi dal 2009. E le divisioni erano emerse con forza anche durante le primarie – cosa che ben pochi si aspettavano alla vigilia. Il tappo è ovviamente saltato con la vittoria di Trump.
Vero che nelle recenti elezioni governatoriali di Virginia e New Jersey i Democratici sono riusciti a portare a casa vittorie importanti. In realtà, però, questi successi sembrano soprattutto dovuti alla scarsa popolarità di Trump. Secondo recenti sondaggi, solo il 37% degli americani ha un'opinione favorevole del Partito democratico – il dato più basso in venticinque anni – mentre ben il 54% del campione ne ha un'opinione negativa. Brutti segnali che certificano la drammatica crisi di legittimità della democrazia americana.
I Democratici si sono trovati impreparati a fronteggiare la crisi politica che ha seguito quella economica di dieci anni fa. Durante gli anni di Bill Clinton, il Partito democratico fu rimodellato in maniera sostanziale: centrista politicamente, neo-liberale in economia, si era proposto come il partito dell’America multiculturale e multietnica delle tante minoranze, puntando a rimpiazzare il proprio tradizionale blocco sociale di riferimento con una rainbow coalition tenuta insieme più da un'attitudine culturale che da bisogni comuni.
La crisi ha fatto emergere le contraddizioni di tale proposta. Il Partito democratico rappresenta la maggioranza nel Paese, ma rimane minoritario a livello istituzionale. Un problema sia politico sia elettorale: il messaggio di unità dei Democratici non poteva avere un particolare successo in un Paese profondamente diviso; e la rincorsa al centro ha sempre meno senso quando il peso delle diseguaglianze fa sprofondare verso il basso il reddito dell’elettore medio – cose che Trump ha capito molto meglio dei Democratici.
Inoltre, la sconfitta ha acuito le divisioni interne, un tratto comune a molti partiti tradizionali in crisi, dal Labour inglese agli stessi Repubblicani, che hanno subito un hostile takover da parte del Tea Party. L’ala mainstream dei Democratici, forte del risultato del voto popolare che li premiava – e giustificava agli occhi di molti la legittimità della propria linea politica –, ha preferito evitare una seria analisi delle ragioni della sconfitta. Hillary ha scritto un libro pieno di risentimento, in cui si lancia in una interminabile lista di accuse: da Sanders a Comey, passando per Assange, i russi, il razzismo e il sessismo. Intanto, a Washington, l’opposizione a Trump si è concentrata quasi esclusivamente sull’affaire Russia, con la speranza, neanche tanto nascosta, che questo porti all’impeachment del presidente. In termini quasi più psicanalitici che politici, si pensa che l’impeachment possa cancellare una sconfitta tuttora considerata ingiusta e financo illegittima.
A questo punto, quindi, è la sinistra del Partito a chiedere un immediato cambiamento di direzione. Le elezioni degli ultimi anni, e anche la recente tornata a livello locale, hanno evidenziato come si possa vincere anche con programmi radicali, capaci di mobilitare gli elettori e pescare tra gli scontenti. Bernie Sanders è il politico più popolare del Paese e dalla sua parte non ha solo l’entusiasmo del nuovo. La sua campagna ha avuto successo soprattutto dove i Democratici hanno perso le elezioni e ha un clamoroso seguito tra alcune fasce di elettori – la working class e i millenials – fondamentali per vincere i collegi elettorali più combattuti. Entrambe queste categorie di popolazione, in maniera diversa, hanno definitivamente voltato le spalle alla Clinton. E sono le iniziative della sinistra, in assenza per altro di quelle del resto del Partito, che impongono l’agenda politica per il futuro: la proposta di legge per andare oltre la modesta Obama-care e quella per introdurre finalmente un single-payer system, accolta con entusiasmo dalla maggioranza della popolazione, ma che trova ancora moltissime resistenze all’interno dello stesso Partito democratico.
Nonostante la popolarità di Sanders, sarebbe un errore pensare che una vittoria della sinistra sia prossima. Il Partito è dominato da interessi forti e ben strutturati, capaci di fronteggiare la sfida dell’ala più radicale, come peraltro dimostrato dall’elezione di Tom Perez a segretario e dalle primarie in Virginia. Si tratta di una partita complessa, giocata a volte con carte truccate: secondo Donna Brazile, ex segretaria ad interim dei Democratici, con un accordo dell’agosto 2015 si dava un controllo pressoché totale del Partito alla campagna di Hillary Clinton, molto prima che le primarie fossero concluse. Le divisioni sono tali che è spesso difficile trovare un denominatore comune tra sinistra e liberals – tenuti insieme più che altro dal sistema bipartitico americano che lascia poco spazio agli outsiders. Eppure, la risoluzione della crisi politica americana dovrà passare inevitabilmente attraverso un cambiamento del Partito democratico.
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