La frontiera, nella definizione che ne danno spesso gli antropologi, è uno spazio di contatto e incontro fra due realtà diverse, permeabile per definizione. Essa si oppone concettualmente al confine, che al contrario tende a separare nettamente, porre un limite fra due realtà che si vuole far rimanere distinte.
Il confine non risponde alle esigenze dirette delle periferie in cui si trova, ma è frutto delle volontà del centro, che lo usa per rafforzarsi e creare una propria unità e identità. Questo è ciò che possiamo osservare nel caso di Ceuta e Melilla, dove a una situazione di frontiera storicamente flessibile si contrappone altrettanto storicamente il tentativo di porre dei confini, più in funzione dell’immaginario nazionale spagnolo e delle élite che non della realtà locale e delle sue esigenze.
L’ultima forma di questo tentativo, supportata politicamente e finanziariamente dall’Unione europea, è rappresentata dai muri che circondano entrambe le città, las vallas. Con le loro doppie recinzioni di sei metri di altezza, le numerose telecamere e dispositivi elettronici, gli elementi dissuasori e la costante vigilanza armata – tradottasi anche in episodi poco chiari di fuoco aperto contro gruppi di “assalitori” che, negli ultimi anni, ha lasciato diversi morti sul terreno – le due vallas costituiscono fin dalla fine degli anni Novanta il tentativo più visibile di porre un freno alle migrazioni di persone che da tutta l’Africa cercano di raggiungere l’Europa.
Ceuta e Melilla sono oggi, assieme a alcuni isolotti disabitati, ciò che resta dei sogni di espansione imperiale spagnola nell’Africa settentrionale. Ceuta, 19,4 chilometri quadrati, fu conquistata dai portoghesi nel 1415 e passò agli spagnoli nel 1668. Melilla, ancora più piccola – 13,4 chilometri quadrati – venne invece conquistata direttamente dagli spagnoli nel 1497, assieme a tante altre piazzeforti che avrebbero dovuto rendere più sicuro il commercio nel mediterraneo. Nel 1956 il Marocco divenne indipendente dal protettorato ispano-francese ma le due città rimasero alla Spagna, protagoniste di rivendicazioni e conflitti diplomatici continui, mai risolti, fra i due Paesi.
La divisione politica fra Spagna e Marocco non ha mai intaccato la “complessa società transfrontaliera”, lo spazio che ha storicamente unito le due città alle province circostanti in un insieme geografico, economico e sociale difficile da scorporare
La divisione politica fra Spagna e Marocco non ha mai però intaccato quella che è stata definita una “complessa società trans-frontaliera”, uno spazio che ha storicamente unito e unisce tutt’ora le due città alle province circostanti in un insieme geografico, economico e sociale difficile da scorporare. La permeabilità di questa frontiera è storicamente accertata, come ricordano gli studi dell’antropologo Henk Driessen. Essa è favorita dalla mobilità continua di merci – dal 1863 Ceuta e Melilla sono aree di libero commercio – e persone – più di 40.000 cittadini marocchini si spostano quotidianamente per motivi lavorativi, senza necessità di visto, dalle province di Tetouan e Nador all’interno delle due città.
La realtà fluida e permeabile della frontiera trova storicamente come contrappeso tutto un apparato ideologico nazionalista e religioso, che da sempre cerca di affermare le differenze fra le enclaves e ciò che le circonda. La vita delle due città è stata quindi caratterizzata dalla presenza di rituali civil-militari e cerimonie religiose nazional-cattoliche, come la jura de la bandera e le processioni di Semana Santa, cui con i rappresentanti della Chiesa cattolica partecipa la Legione, il culto dei cimiteri e dei simboli monumentali spagnoli.
La valla si inserisce in questa dialettica fra frontiera e confine, marcandone ancora di più le contraddizioni e spingendo verso il tentativo di dividere quello che, al di là della realtà amministrativa, è un insieme sociale omogeneo. Se il confine prevalesse sulla realtà della frontiera, Ceuta e Melilla si troverebbero infatti ad essere dei centri senza periferie, diventerebbero delle città parassitarie cui verrebbero a mancare le risorse per sopravvivere localmente. Tuttavia, come rileva l’antropologo Francesco Vacchiano, la valla fa parte di un più complesso “regime dei confini”, che caratterizza la costruzione politica e simbolica dell’Unione europea e trova nell’area dello stretto di Gibilterra la sua più significativa realizzazione.
Se il confine prevalesse sulla realtà della frontiera, Ceuta e Melilla si troverebbero ad essere dei centri senza periferie, città parassitarie senza risorse per sopravvivere localmente
Dal 1986 Ceuta e Melilla escono da una dimensione locale di avamposti spagnoli per diventare le porte meridionali dell’Europa. Alla lunga storia di elaborazione di identità collettive da parte dell’élite spagnola va aggiungersi ora un livello sovranazionale superiore, quello europeo. L’immaginario ideologico della “Fortezza Europa” necessita di simboli chiari e precisi che ne rafforzino le basi. La valla diventa quindi una performance simbolica, che contribuisce alla creazione di un’identità europea nella maniera più semplice: delimitando e separando quella che deve essere l’Europa dagli “altri”, cercando di fissare dei segni fisici sul territorio che, al di là della loro scarsa efficacia pratica – come evidenziano gli esperti di sicurezza così come i continui ingressi di migranti nonostante le vallas –, sono funzionali a un livello di costruzione ideologico dell’identità europea, e di quella spagnola al suo interno.
Secondo il geografo Xavier Ferrer Gallardo, “l’interazione e i complessi processi di identificazione ai limiti di Ceuta e Melilla mostrano come i processi di costruzione dei confini hanno impatti differenti al centro e alla periferia. Il desiderio del centro di avere un confine impermeabile e militarizzato contrasta con la permeabilità della frontiera che è necessaria per la sostenibilità delle enclaves e delle loro popolazioni”. La valla appare quindi come l’ennesima contraddizione non risolta di una politica neoliberale, che se da una parte cerca di favorire la libera circolazione di merci e capitali, dall’altra cerca invece di porre limiti e controlli alla mobilità umana e alle migrazioni.
[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]
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