Giovanni – nome di fantasia – ha 17 anni. Porta i caffè negli uffici per un bar del centro. Lavora dalle 7 e 30 alle 17 e 30, dal lunedì al sabato. Viene pagato 80 euro la settimana e in più si “porta a casa” una media di 10/15 euro al giorno di mance. Ieri si è messo quasi a piangere, raccontandomi del suo problema, perché il bar cambia gestione e i nuovi proprietari hanno due nipoti che prenderanno il suo posto.Quando ci sono giovani che piangono perché corrono il rischio di non essere più gravemente sfruttati un Paese è arrivato al capolinea. E ciò avviene in una sorta di indifferenza diffusa in cui tutto questo, soprattutto nel dibattito politico, sembra ineluttabile, un prezzo da pagare per la crisi economica che in questi anni non solo ha reso più densa la povertà, ma allargato in modo esponenziale la distanza tra primi e ultimi della fila.
Nel Sud, soprattutto nelle aree urbane o in settori del mercato del lavoro come l’agricoltura o l’edilizia, il poco lavoro che c’è viene vissuto come una sorta di “dono” da accettare a qualunque costo e condizione, anche quando le sue caratteristiche sono incompatibili con il rispetto della dignità dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma la cosa, forse più grave, è che la situazione di Giovanni, come di tanti altri giovani uomini e donne intorno a lui, si avvicina – già è dentro – a quella condizione di povertà estrema che l’antropologo Appadurai descrive come quella in cui viene “uccisa la capacità di aspirare”: anche solo la possibilità di immaginare di poter cambiare la propria situazione.
Questa impossibilità, in questi territori così segnati e provati dalla povertà e dalla cronica assenza di opportunità di lavoro, porta con sé il rischio, definitivo e deprimente, di dover accettare il piano della confusione tra diritti e favori come unica modalità per cercare e innestare possibili strategie di uscita ed emancipazione. Oppure, come capita a un numero crescente di giovani e giovanissime donne, di tornare a individuare nel matrimonio l’unica forma di uscita dal nucleo familiare di appartenenza, alimentando così le asimmetrie di potere nelle relazioni tra generi.
A fianco, i processi di impoverimento, iniziati ben prima della crisi e che in essa si sono ampliati e resi più densi, hanno agito sulle reti di economia sommersa e informale, da un lato rendendole spesso insufficienti alla sopravvivenza, d’altro lato frammentando i legami sociali e relazionali che in esse si determinavano e che spesso rappresentavano il luogo di mediazione e convivenza tra differenti. Una disgregazione socio-economica che abbassando la competizione tra gli ultimi e tra questi e i molti che hanno la sensazione di scivolare verso il basso, alimenta pericolosi focolai di conflitto e, più in generale, riduce gli spazi di benessere collettivo e di sicurezza urbana.
Una situazione che, per l’urgenza e la gravità che porta con sé, dovrebbe entrare a pieno titolo nel dibattito che accompagna il confronto sulle elezioni regionali e che invece ne rimane ai margini, a volte confusa con generici richiami alla solidarietà, all’assistenzialismo, al generico richiamo al problema lavoro.
Ma più in generale i temi della povertà e delle sue conseguenze, delle precarietà e vulnerabilità diffuse che alimentano illegalità e devianza, di un lavoro sempre più sommerso e difficile da trovare sembrano rimanere distanti dalle attenzioni della politica e dalle scelte delle amministrazioni locali. Una disattenzione grave che dimostra come ancora sia forte la convinzione che tali tematiche e quindi le politiche ad esse collegate, in fondo in fondo, riguardino solo gli ultimi e i marginali (magari quei poveri che tutto sommato meritano tale condizione) e per questo in epoca di scarsità possano essere sacrificate o comunque venire sempre dopo le cose importanti.
Insomma, ci sarebbe bisogno del coraggio di un ribaltamento culturale che sappia affermare con forza che nel Mezzogiorno, come nell’intero Paese, le politiche di coesione sociale, come quelle di Welfare e di contrasto alla povertà, non sono un esito dello sviluppo ma un suo presupposto. Che senza un’attenzione e un investimento forte su di esse spesso parlare di sicurezza, legalità e sviluppo perde senso e contatto con la realtà.
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