Durante l’estate il “cantiere previdenza” si è riaperto con una significativa novità: la “discesa in campo” del neo-presidente dell’Inps, l’economista Tito Boeri, che ha formulato alcuni principi generali per una riforma del sistema pensionistico, volta sia a garantire stabilità delle regole previdenziali nel lungo periodo, sia a rendere più equo il sistema. Poiché presentate soltanto nelle linee essenziali, le proposte di Boeri non possono essere oggetto di una valutazione definitiva, prestandosi però a due considerazioni preliminari.

La prima è di metodo. Indipendentemente della bontà (o meno) delle proposte avanzate, se per (ben) deliberare bisogna innanzitutto (correttamente) conoscere, l’entrata da protagonista del presidente Inps sul palcoscenico previdenziale non può che essere apprezzata sia per l’expertise tecnica sia per l’accesso ai dati di cui l’Istituto dispone. Tuttavia, poiché nelle democrazie ben funzionanti è necessario che non solo i policy makers, ma anche le parti sociali e l’opinione pubblica siano correttamente informati, affinché l’iniziativa di Boeri arricchisca pienamente il dibattito è opportuno il soddisfacimento di un’ulteriore condizione: che alla formulazione dei principi generali di revisione delle regole pensionistiche faccia seguito la presentazione, in forma pubblica e non soltanto al governo, del piano dettagliato di riforma, corredato da stime, analisi e valutazioni quantitative.  

La seconda osservazione è di merito e guarda al contenuto specifico delle proposte di Boeri. Nell’attesa che il piano di riforma assuma una forma più compiuta, arricchendosi di dettagli da sottoporre a valutazione puntuale, i principi enunciati paiono muovere nella giusta direzione, pur con alcune importanti precisazioni.

La prima proposta, che prevede un contributo di solidarietà a carico dei pensionati con redditi più elevati per effetto di trattamenti particolarmente favorevoli garantiti da alcune gestioni pensionistiche, è ampiamente condivisibile. Ciò nella prospettiva di rafforzare l’equità di un sistema che eroga prestazioni fortemente sperequate, collocando l’Italia al settimo posto tra i Paesi dell’Unione europea con la più elevata disuguaglianza dei redditi tra gli over-65.

Tale proposta è anche più apprezzabile perché agganciata alla previsione di utilizzare le risorse recuperate per contribuire a finanziare il secondo intervento: l’ammorbidimento delle condizioni di accesso al pensionamento, al fine di favorire l’uscita anticipata e/o flessibile dal mercato del lavoro. Trattasi di un provvedimento importante e necessario per tamponare le conseguenze negative determinate dalla combinazione esplosiva tra rapida implementazione degli stringenti requisiti per il pensionamento previsti dalle riforme Sacconi e Fornero-Monti, e la fase di prolungata recessione economica e bassa domanda di lavoro. Infatti, sul mercato del lavoro non si è soltanto registrato un effetto old in, young out – come messo in luce dallo stesso Boeri – con il repentino aumento del tasso di disoccupazione giovanile fino a sfiorare il 45%, lo stesso aumento dell’occupazione nella fascia 55-64 anni è stato accompagnato dall’emersione, per la prima volta in quattro decenni, del fenomeno della disoccupazione tra i lavoratori anziani – con il drammatico incremento dei disoccupati tra i 50 e i 64 anni da 128.000 unità (2007) a 463.000 (2014, cassintegrati esclusi). Ça va sans dire, l’intervento proposto va attentamente calibrato, considerando da un lato l’impatto sulla spesa, dall’altro facendo attenzione a che le penalizzazioni non siano troppo onerose per i lavoratori – come accadrebbe, ad esempio, nel caso di ricalcolo integrale col metodo contributivo.

I dati sui disoccupati indicano dunque che sul mercato del lavoro la domanda non è riuscita a equilibrare il consistente aumento dell’offerta, con il crescente rischio per i lavoratori anziani di venire espulsi dall’occupazione retribuita anche 5-10 anni prima di poter accedere alla pensione – un periodo troppo lungo per essere tutelato dall’attuale sistema di ammortizzatori sociali. Ecco quindi benvenuta la terza proposta del presidente Inps, che prevede l’istituzione di uno schema di “reddito minimo garantito” per gli over-55. Perché, però, non essere più ambiziosi? A quasi due decenni dalla sperimentazione del Reddito minimo d’inserimento, l’introduzione in tempi rapidi di uno schema di reddito minimo per tutti gli individui in condizioni d’indigenza (non solo gli anziani) – collegato a programmi d’inserimento sociale e/o professionale – è infatti oggi una priorità, allo scopo di contrastare il rapido aumento della povertà durante la Grande Recessione e sanare in via definitiva il vulnus rappresentato dall’assenza di una safety net nell’architettura del Welfare State italiano – unico caso in Europa assieme alla Grecia.

Si obietterà che tale opzione è difficilmente perseguibile per gli stringenti vincoli di bilancio. L’impressione è, tuttavia, che le cose non stiano propriamente in questi termini, e alcune decisioni recenti mostrano che l’ostacolo effettivo risiede nella (mancanza di) volontà politica: quando si è voluto, risorse anche ingenti sono state reperite in tempi rapidi, basti pensare ai 9,5 miliardi di euro investiti nel “bonus 80 euro”. Il costo di uno schema di reddito minimo è, a regime, attorno ai 6 miliardi, e la maggiore propensione al consumo delle fasce più povere lo rende uno strumento più efficace ed efficiente nel sostenere la domanda interna rispetto agli sgravi fiscali.

Le ultime due proposte, infine, hanno implicazioni “sistemiche” più rilevanti e suggeriscono, nella formulazione attuale, reazioni diverse. In particolare, l’ipotesi di introdurre la facoltà per i datori di lavoro di integrare i livelli contributivi dei propri dipendenti dovrebbe essere accompagnata – meglio, preceduta – da una riflessione complessiva sui rapporti tra previdenza pubblica e previdenza complementare, a ormai vent’anni dal lancio del piano di riconfigurazione su più pilastri del sistema pensionistico italiano – rimasto ampiamente incompiuto.

Diversamente, l’introduzione di un livello minimo di pensione per i pensionati senza altri redditi e con prestazioni attese al di sotto della soglia di povertà è da accogliere con favore, al fine di avviare la costruzione, per i decenni futuri, di un sistema pensionistico che – superando la camicia troppo stretta della “neutralità attuariale” assicurata dal metodo contributivo – sia capace di coniugare efficacemente sostenibilità, adeguatezza ed equità.