In principio fu Airbus, quella originale dei cieli a guida franco-tedesca. Ma alla luce del caso Stx-Fincantieri di questi giorni, la domanda diviene: avremo mai quella dei mari? Per rispondere alla domanda è necessario fare un passo indietro.
Nel 1970 quattro imprese europee del settore aeronautico (la francese Aerospatiale, la tedesca Casa, l’inglese Ba, la spagnola Casa) crearono un consorzio utilizzando uno strumento previsto dal diritto francese, il “Groupement d’intérêt économique”. Ebbene, possiamo considerare il consorzio Airbus Industrie (Eads), poi trasformatosi negli anni Duemila in vera e propria società per azioni, l’atto di nascita dei “campioni europei”, imprese – volendo offrirne ex-post una sintetica definizione – che hanno saputo fare i conti col mercato unico europeo, una forma di integrazione economica internazionale ove esiste piena libertà di circolazione dei quattro fattori della produzione (beni, servizi, persone, capitali).
Dopodiché, lungo la stessa vena aperta nel 1970 e benché a una scala dimensionale inferiore – due Paesi anziché quattro – nel 1987 nasceva Sgs-Thomson Microelectronics grazie alla fusione fra due società: l’italiana Sgs (di proprietà dell’Iri) e la francese Thomson Semiconducteurs (di proprietà del Tesoro francese), entrambe operanti nel settore dei semiconduttori.
Ora, Eads-Airbus, da un lato, e quella che abbiamo imparato a conoscere come STMicroelectronics (oggi ST), dall’altro, sono da considerare due casi di successo
Ora, Eads-Airbus, da un lato, e quella che abbiamo imparato a conoscere come STMicroelectronics (oggi ST), dall’altro, sono da considerare due casi di successo. E ciò per più di un motivo. Innanzitutto di ordine istituzionale, in quanto emerge con forza un ruolo pro-attivo esercitato da più Stati-membri dell’allora Cee, Stati che erano in larga misura i proprietari degli asset conferiti alle nuove entità; in secondo luogo di ordine industriale, perché entrambi i “campioni europei” qui menzionati sono fra i leader di mercato (il primo compete con Boeing per la supremazia mondiale, il secondo ha brillantemente superato la crisi legata al declino di Nokia ed è oggi impegnato in produzioni sempre più sofisticate legate a Industry 4.0).
Le ragioni istituzionali, in particolare, portano a identificare questi “campioni europei” come quelli di “tipo I” (si veda il mio articolo L'economia dell'Unione e i suoi campioni, “il Mulino”, n. 2/2008), giacché il ruolo pro-attivo esercitato da più Stati membri lo è in maniera coordinata o, per dirla con Alexis Jacquemin, “concertata”. In anni nei quali era ancora assolutamente dominante – in molte capitali europee – l’idea di creare “campioni nazionali”, l’allora consigliere economico del presidente Jacques Delors postulava – citiamo da un suo celebre lavoro del 1987 – “la necessità di formulare una politica industriale europea concertata che permetta di superare le strategie settoriali lungo le linee nazionali” (il corsivo è nostro).
Strada facendo, la storia dei “campioni europei” si arricchisce di nuovi casi di successo, che hanno però una fondamentale differenza con i due degli inizi. Questi – che chiamiamo di “tipo II” – nascono in virtù di operazioni di fusione e acquisizione (M&A), o joint-venture, che passano il vaglio del mercato. Dallo storico take-over del 1999/2000 di Vodafone su Mannesmann (è la prima volta che va in porto una scalata nel cuore del capitalismo renano) e dalla joint-venture del 2007 fra Lufthansa e Rolls-Royce (N3 Engine Overhaul Services per la revisione dei motori aerei), più volte citata da Angela Merkel, è tutto un fiorire di operazioni. Certo, le ondate di M&A risentono delle crisi nei mercati finanziari, e il crac del 2008 non poteva non farsi sentire. Tuttavia, sia prima sia dopo la stragrande maggioranza delle operazioni è volta a mettere insieme imprese che hanno lo stesso core business, proprio al fine di creare “campioni europei” capaci di competere nell’economia internazionale.
Giungiamo così ai nostri giorni, e alle note operazioni – per restare a questi primi mesi del 2017 – fra Essilor e Luxottica, Psa e Opel, Fincantieri e Stx France, con quest’ultima balzata agli onori delle cronache per la nazionalizzazione dei cantieri di Saint-Nazaire voluta dalla nuova presidenza francese di Emmanuel Macron; ossia, per il veto a un “campione europeo” – quello che i media già chiamavano l’Airbus dei mari – a guida italiana (Fincantieri) dopo che, negli anni scorsi, il 66,6% della stessa società francese, che versava in crisi produttiva e finanziaria, era stato venduto ai sudcoreani.
Sarà davvero – come dicono da Parigi – una “nazionalizzazione temporanea”? Speriamo che già domani, dall’incontro a livello ministeriale che si terrà a Roma (per l’Italia, i ministri Padoan e Calenda), possano uscire positive novità.
Se cerchiamo, in conclusione, di collocare questa vicenda nel più ampio contesto della nascita e dello sviluppo dei “campioni europei” (siano essi di “tipo I” o di “tipo II”, perché non sempre i confini sono netti, come proprio l’attuale casus belli dimostra), è forse giunto il tempo di fare qualche passo in avanti. Come il ricco dibattitto di questi ultimissimi giorni dimostra, in gioco non vi sono soltanto i destini di alcune imprese industriali – per quanto importanti esse siano – ma il destino stesso del processo di integrazione europea (l’integrità del Single Market, la nascente Difesa comune europea, e così via).
Nel momento in cui all’interno del mercato comune nasce un “campione europeo” per iniziativa di due o più imprese europee, perché non prevedere l’impossibilità di porre veti da parte dei singoli governi?
Due possibili passi in avanti, da approfondire e discutere nelle sedi opportune, sono i seguenti. Primo, nel momento in cui all’interno del mercato comune nasce un “campione europeo” per iniziativa di due o più imprese europee (leggi: con una proprietà che fa capo a società/gruppi basate in uno Stato membro), perché non prevedere l’impossibilità di porre veti da parte dei singoli governi?
Secondo, nel momento in cui la lista dei “settori strategici” da difendere da scalate ostili provenienti dall’estero (in primis, da Paesi che non sono propriamente democrazie ed economie di mercato) è condivisa e replicata di Paese in Paese (recente, si sa, è il caso della Germania che ha fatto propria la lista messa a punto in Francia qualche anno fa sotto la presidenza Hollande), perché non spostare questa opzione di policy al livello sovranazionale dell’Ue?
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