Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Nell’agosto del 1972 viene reso pubblico il Rapporto che il Club di Roma, su iniziativa di Aurelio Peccei, aveva commissionato a un gruppo di esperti del Mit di Boston, coordinati da Dennis Meadows. Uscirà a stampa, tradotto in trenta lingue e diffuso in 30 milioni di copie, in Italia con il titolo I limiti dello sviluppo (il titolo originale inglese era The Limits of Growth). Quell’opera – che analizzava l’evoluzione prevista dell’impronta antropica, a partire dall’evoluzione demografica – è considerata a ragione una sorta di capostipite tra i lavori scientifici che hanno indicato le conseguenze dell’azione dell’uomo sul pianeta, e compie cinquant’anni. Che cosa abbiamo imparato in questo mezzo secolo?
Molto, in realtà. I gruppi di studio transnazionali non hanno interrotto la loro attività, anzi, continuano a mostrare all’opinione pubblica, e, soprattutto, a chi ha avuto in questi decenni responsabilità di governo, i rischi legati alle abitudini di consumo delle risorse e agli effetti dell’attività umana sul pianeta. Come in molti altri settori, l’arrivo della Rete ha via via consentito una progressiva diffusione delle conoscenze, e sono aumentate le occasioni di incontro sovranazionali. A cominciare dalla Conferenza della Terra tenutasi a Rio del 1992, la prima riunione dei capi di Stato sull’ambiente, sino alla recente Cop26 di Glasgow, per discutere i rimedi e le misure da attuare per arginare il disastro o almeno ritardarlo il più possibile. Nel corso degli anni i rapporti di ricerca si sono susseguiti (ultimo, ad esempio, quello dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico).
Nel 1972 usciva e circolava in milioni di copie, tradotto in diverse lingue, il Rapporto voluto dal Club di Roma sui limiti della crescita umana. Che cosa abbiamo imparato in cinquant'anni?
Assai scarsa è stata l’attenzione della grande stampa e dell’opinione pubblica per molti anni. I temi ambientali e la loro connessione con il sistema capitalistico sono tornati alla ribalta nel 2001, in occasione del G8 di Genova. Sappiamo come è andata a finire. Molte delle istanze che i giovani di allora avevano cercato di porre in risalto con la loro presenza fisica nelle strade di una Genova militarizzata si sono rivelate, purtroppo, quelle giuste. Ma da allora poco è stato fatto.
Si è dovuto attendere l’arrivo di una giovane attivista svedese per riscoprire la centralità dei temi ambientali. Sono trascorsi giusto quattro anni – era il 20 agosto 2018 – da quando l’allora quindicenne Greta Thunberg scelse di non andare più nella sua scuola di Stoccolma, in vista delle elezioni previste per il mese successivo. Quell’anno il suo Paese era stato colpito da eccezionali ondate di calore e da incendi che non avevano precedenti nella storia della Svezia. La torrida estate del 2018 fu per molti, in tutto il Nord Europa, la prova che il livello raggiunto dal riscaldamento globale era ormai diventato insostenibile. La protesta pacifica di Greta (il suo Skolstrejk för klimatet: Sciopero della scuola per il clima) si tradusse nel restarsene seduta davanti al Parlamento ogni giorno di scuola, anziché al proprio banco, in attesa che il governo desse seguito alle decisioni prese tre anni prima alla Cop21 di Parigi.
L’esempio della giovane svedese è stato seguito da migliaia di attivisti in tutto il mondo. Poco alla volta, le piazze si sono riempite di giovani che avanzano ad alta voce le stesse richieste di Thunberg. Nel frattempo, gli incontri dei grandi del pianeta sono proseguiti, mettendo in risalto la contrapposizione tra il mondo ricco che si è sviluppato nel corso del tempo accrescendo il proprio potenziale economico ma disinteressandosi dell’impatto della propria crescita sul pianeta, da un lato; e il mondo comunemente chiamato «in via di sviluppo» che non era disposto ad adattarsi alle nuove regole che avrebbero minato alle radici il proprio potenziale di crescita. I Parlamenti nazionali, e quello europeo, hanno visto molti dibattiti e alcune decisioni, più o meno timide. Nei fatti, la cultura dominante sembra essere ancora ampiamente legata ai modelli di sviluppo che ci hanno portato sin qui. Basti pensare al trasporto privato (responsabile in minima parte dei danni accumulatesi lungo i decenni, e pur tuttavia responsabile), che in molti casi resta il punto su cui i governi cercano di agire, con la leva degli incentivi, piuttosto che modernizzare e rendere appetibile il trasporto pubblico.
L’Italia non ha fatto eccezione. Da un lato ha visto la mobilitazione di migliaia di persone, anche qui soprattutto giovani. Dall’altro non ha ancora registrato un cambio di passo nelle politiche responsabili del futuro ambientale.
Nonostante l’istituzione nel 2021 di un ministero per la Transizione ecologica, lo sguardo della politica, con alcune rare eccezioni, sembra essere rimasto rivolto al passato
Nonostante l’istituzione nel 2021 di un ministero per la Transizione ecologica, lo sguardo della politica, con alcune rare eccezioni, sembra essere rimasto rivolto al passato. Non c’è una soluzione magica, così come non c’è mai stata; e non basta ricordare che l’Italia è in Europa tra i Paesi che beneficiano di una più favorevole esposizione al sole e dunque, almeno sulla carta, più adatto a sviluppare il fotovoltaico. Ogni cambiamento presenta dei costi, a volte elevati. Eppure la strada che dovrebbe portarci fuori dal modello di sviluppo energetico che ci ha guidati sin qui viene percorsa con lentezza e scarsa convinzione.
La crisi energetica strettamente legata al conflitto russo-ucraino ha reso evidente la fragilità di uno schema che già aveva mostrato tutta la propria incertezza prima del 24 febbraio. Le soluzioni di emergenza adottate dal governo Draghi per sostituire il gas russo con altre fonti, grazie agli accordi stipulati con Paesi fornitori come l’Algeria, rappresentano un indubbio passo indietro, pur essendo l’unica azione possibile che si è potuta attuare in tempi così stretti, dato l’immobilismo che ha in gran parte caratterizzato le scelte del passato (con un Piano di adattamento climatico fermo al ministero dal 2018 e 110 GW di rinnovabili in attesa di autorizzazioni). Soluzioni che stanno richiedendo in aggiunta l’arrivo di enormi navi cariche di gas liquido, prevalentemente dagli Stati Uniti, che rendono però necessari nuovi rigassificatori. Lo sviluppo dell’eolico offshore, e della tecnologia europea (in gran parte di produzione spagnola) necessaria per nuovi impianti, si scontra con alcune politiche di piccolo cabotaggio, che purtroppo vede gli enti locali non brillare per lungimiranza.
Di tanto in tanto riemerge la nostalgia per l’energia nucleare che un referendum, nel 1987, respinse (l’ultima centrale operativa verrà chiusa tre anni dopo). Si parla di «nuovo nucleare», si ricorda che un eventuale incidente Oltralpe coinvolgerebbe anche l’Italia (perché dunque rischiare senza alcun vantaggio, visto che a trarre i benefici sono solo i francesi?), si sostiene che il problema delle scorie sia molto minore di un tempo. Eppure il disastro di Fukushima del 2011 è ancora fresco nella memoria di molti, di mentre quello della centrale sovietica di Chernobyl del 1986 è diventato oggetto di una (bella) serie televisiva. Ma gli effetti di quei disastri ci accompagneranno ancora per molto tempo. Tutto questo con pressapochismo e molta ideologia. Chi, nei salotti televisivi, tenta di argomentare, in base ai propri studi e alle proprie competenze, la necessità e la fattibilità di un cambiamento viene sbeffeggiato e contrastato con molti slogan e poca sostanza.
Non esiste una soluzione unica: certo, è il nostro modello di sviluppo e quindi anche i nostri stili di vita e di consumo che richiederebbero di essere rivisti
Non esiste una soluzione unica: certo, è il nostro modello di sviluppo e quindi anche i nostri stili di vita e di consumo che richiederebbero di essere rivisti. Occorrerebbero, ancora una volta, programmi politici capaci di investire sul domani, non solo sull’oggi e non solo guardando al consenso immediato. Così invece non è: e l’offerta politica si spacca tra chi tenta di offrire un’alternativa che tenga conto dei dati scientifici messi a disposizione nel corso di cinquant’anni e chi si ostina a difendere un modello che, pur garantendoci meno preoccupazioni nell’immediato (non cambiamo nulla e sarà un problema di chi verrà dopo di noi) non potrà che accelerare la nostra corsa verso nuovi, enormi problemi ambientali, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza e di salute pubblica.
La campagna elettorale in corso, almeno sinora, non è sembrata porre i temi del cambiamento climatico, della transizione ecologica e, più in generale, del futuro dell’ambiente in cui viviamo in cima all’«agenda», come si dice oggi.
L’attentato al governo è partito sul termovalorizzatore di Roma: del resto quello dei rifiuti è il grande scandalo di molti pezzi di Paese (mentre altri, non pochi seppure a macchia di leopardo, con la Raccolta porta a porta e la differenziazione di qualità, hanno saputo costruire un’alternativa valida al bruciare e sotterrare). Potremmo ricordare le ecomafie (e le ecoballe), di cui scriviamo da anni. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Resta che la crisi ambientale e le politiche necessarie per affrontarla ci mostrano che proprio la generazione dei Fridays for Future, vale a dire chi ha più a cuore l’ambiente e per ragioni anagrafiche vedrà più a lungo l’esito delle scelte fatte o non fatte, oggi ha il compito di obbligare le forze in campo a prendere posizioni e ad argomentarle.
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