Nelle prime settimane dell’emergenza sanitaria, una volta chiuse le scuole e le università e alle soglie del lungo periodo di reclusione forzata nelle case, lo storico e critico televisivo Aldo Grasso propone alle reti di servizio pubblico, nel suo fondo che ogni domenica occupa il taglio basso della prima pagina del «Corriere della Sera», di ritornare alla loro antica missione pedagogica, «seguendo i piani di studio ministeriali e sfruttando l’enorme materiale didattico che la Rai possiede». Recuperando esperienze come quella di Telescuola (1958-1966) e aggiornandole, scrive, proprio nella crisi e nelle necessità che ne derivano si potrebbe dare un senso nuovo alla televisione di Stato e alla sua funzione sociale, e persino civile (Coronavirus, riaccendiamo Telescuola, la tv pedagogica, 8.3.2020). Nei giorni seguenti si aggiungo- no ulteriori testimonianze, che tra ricordi e rilanci discutono quanto il piccolo schermo potrebbe e dovrebbe fare per i bambini e adolescenti chiusi in casa. Alcuni esponenti politici, in modo ora sincero e ora più strumentale, fanno propria una simile richiesta. Contemporaneamente è lo stesso servizio pubblico italiano a rimodulare in fretta il palinsesto per tenere conto dei mutamenti nei ritmi di vita e nelle necessità dell’audience, dando spazio a contenuti educativi di molteplice natura tratti dalle sue profonde library, o comunque a una programmazione specificamente rivolta a chi sta a casa da scuola, e riservando persino all’operazione uno specifico video promozionale.
Il dibattito è molto interessante, per vari motivi: mette in luce la capacità della televisione di adattarsi a situazioni di crisi e di contribuire in vario modo ad alleviarle, sottolinea una sua perdurante centralità pur nello scenario molteplice e digitale dei media contemporanei, discute il senso della nozione spesso data per scontata e altrettanto spesso contestata di servizio pubblico. Soprattutto, al di là del momento eccezionale, evidenzia un annoso problema, quello del rapporto tra la tv e il suo pubblico adolescente, i suoi spettatori più giovani, apparentemente in crisi da molto tempo per le molte alternative digitali, la limitatezza dell’offerta o la difficoltà di trovare il giusto linguaggio. La popolarità della proposta e della discussione che ne è subito seguita; insomma, è legata anche al suo inserirsi in una serie di non detti, al suo innestarsi in almeno un paio di luoghi comuni radicati, condivisi, mai discussi davvero. Vale la pena, allora, approfondirli almeno un poco, metterli in dubbio, ricorrere a qualche indizio e qualche dato, per comprendere meglio come (e se) la tv si pone verso i ragazzi e come (e se) i ragazzi guardano la tv.
Ragionando sul legame tra il piccolo schermo e i suoi spettatori adolescenti, un primo argomento molto radicato nel discorso pubblico è il rimpianto per quanto fatto nei primi decenni della televisione italiana e poi in seguito abbandonato. Si richiama l’esperienza della «tv dei ragazzi», fascia di programmazione che ogni giorno proponeva un’ampia varietà di rubriche, una specie di piccolo schermo in miniatura che alternava approfondimenti, documentari, fiction, intrattenimento. Si ricorda il ruolo di affiancamento alla scuola dell’obbligo, con le lezioni filmate del maestro Alberto Manzi (Non è mai troppo tardi, 1960-1968) e le altre occasioni di insegnamento a distanza. E più in generale si riflette su quanto la cosiddetta «paleo-televisione», con due soli canali in onda per una manciata di ore, fosse in ogni momento pervasa da un afflato educativo profondo, dall’attenzione elevata ai toni e alle modalità di rappresentazione, da una chiara gerarchia di temi importanti, da una proposta variegata e misurata: una tv rivolta a tutti, compresi i più piccoli, che entra in punta di piedi e con estrema cautela nelle case degli italiani, da un lato portando con sé contenuti esplicitamente educativi o legati a una cultura alta e canonica, e dall’altro permeando l’intera proposta di valori cattolici e atteggiamenti paternalistici. Dalla seconda metà degli anni Settanta, tale idillio è messo in crisi prima dalle tv locali e poi dai network commerciali, con quella che Umberto Eco chiama «neo-televisione» e con la Rai costretta a inseguire la concorrenza e a recuperare il pubblico orientandosi al denominatore comune, piegandosi alle richieste e ai bisogni di una massa indistinta di spettatori, rinunciando alla cura e alla ricchezza originarie. Da un lato, questo tipo di lettura della storia della televisione italiana è pervaso spesso da uno sguardo nostalgico, che mescola dati di fatto e ricordi di infanzia, e che addirittura può riguardare chi per ragioni anagrafiche quell’età dell’oro nemmeno l’ha vissuta davvero.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/20, pp. 341-348, è acquistabile qui]
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