Quando settori corposi di elettorato si spostano da un partito a un altro, o quanto meno da un’area politica a un’altra, si verifica quello che gli analisti definiscono una «elezione critica». Le elezioni regionali del 28-29 marzo non sono in sé una elezione critica: forniscono piuttosto la controprova di quanto già avvenuto nel 2008, quando assistemmo ad un vero e proprio slittamento verso destra dell’elettorato. La crisi in cui si avvitò il centrosinistra con la caduta del governo Prodi non era destinata a passare rapidamente. Non si era capito, all’epoca, che con il fallimento dell’Unione tramontava un’epoca, quella del confronto paritario con il centrodestra. Nemmeno la nascita del Pd era servita ad arginare lo smottamento in atto. E per autolesionismo, il Pd era stato pure azzoppato dai suoi dirigenti proprio quando, alle elezioni del 2008, aveva ottenuto il miglior risultato dei riformisti.
La vittoria politica alle elezioni regionali è quindi frutto dello spostamento «critico» verso destra avvenuto due anni fa. Un governo inefficiente e assente su una quantità infinita di fronti, un presidente del Consiglio travolto da un turbine di inchieste e di comportamenti privati drasticamente censurabili (sulla frequentazione di minorenni si è stesa troppo rapidamente una cortina di silenzio), un partito di maggioranza diviso e litigioso, il tutto a fronte di un Paese attraversato dalla peggiore crisi economica del dopoguerra: tutti fattori che inducevano a pensare a un voto sanzione pari a quello inviato dagli elettori francesi la settimana prima. Invece, sia pure per un soffio, entrambe le regioni cruciali sono state conquistate dal centrodestra. Ed è questo il sigillo della vittoria. Che ancora una volta porta il nome di Silvio Berlusconi. Onnipresente in ogni dove fisico e mediatico, il presidente del Consiglio ha buttato tutto il suo peso nella campagna elettorale, ideologizzandola ai massimi livelli. Ovviamente, l’impressionante divario di spazio nei media tra Berlusconi e il governo tutto e l’opposizione alla fine ha fruttato. (E quelle anime belle che continuano a ripeter il frustro refrain secondo cui le televisioni non contano nulla dovrebbero chiedersi come mai il cavaliere le continui a usare e controllare manu militari). Anche per questo le previsioni di una vittoria dei candidati del centrosinistra nelle due regioni chiave, Piemonte e Lazio, dei sondaggi dell’Ipsos per «Il Sole-24 Ore» sono state smentite.
Però, benché questi fattori contino e negli ultimi giorni di campagna abbiano spostato quel tanto che bastava per vincere, è altrettanto vero che il Pd non solo ha perso quattro regioni ma ha perso anche voti. Nonostante la sinistra radicale sia rimasta a livelli minimi – caso pugliese a parte – il partito di Bersani non riesce a sfruttare l’indubbia debolezza politica del governo. E in una regione chiave come l’Emilia-Romagna (l’unica grande che le sia rimasta) cede quasi 10 punti percentuali. Questo significa che le parole d’ordine, la visione del mondo, l’interpretazione della realtà, sono tutte in mano alla destra, e la sinistra non riesce a presentarne di altrettanto credibili e convincenti. Rispetto al messaggio xenofobo e «sicuritario» della Lega o al cloroformio berlusconiano sulla crisi, a sinistra non risuona un’alternativa forte, né in termini di valori né in termini di politiche. Rispetto all’orgoglio di appartenenza e alla convinzione di essere nel giusto della destra, la sinistra offre infiniti dibattiti su primarie sì-no-forse un po’, o affascinanti disquisizioni su partito a vocazione maggioritaria o ritorno all’Ulivo: temi appassionanti per dirigenti di partito e per i loro megafoni mediatici quanto incomprensibili e insopportabili per i cittadini.
È questo differenziale di forza di convinzione e di precisi e condivisi riferimenti ideologici e programmatici che fa correre la destra e lascia indietro la sinistra. Eppure le domande della componente urbana, acculturata e aperta della società non sono intercettante dal governo di centrodestra, la cui visione è definita da orizzonti chiusi, localistico-familisti, anti-europei e conservatori.
Per «forzare» questa chiusura e aprire il campo alle scelte culturali e politiche di una società moderna ed europea il compito del «Mulino» non può che essere quello di continuare a scandagliare i territori meno noti della società italiana, oltre che del contesto internazionale. Ma non solo. È anche nostra ambizione tracciare qualche linea prospettica per chi vuole agire nel società civile e in quella politica. A qual fine? In estrema sintesi, per rendere il nostro Paese sempre più civico e tollerante, aperto ed europeo. Un doppio binomio semplice ed essenziale, al limite dello slogan. Ma che racchiude tutta la storia di questa rivista.
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