In molti, venerdì scorso, hanno salutato con sollievo la sentenza del Consiglio di Stato francese che ha dichiarato illegittima l’ordinanza anti-burkini del comune di Villeneuve-Loubet. In Francia, dove i sindaci degli altri comuni coinvolti hanno già dichiarato di voler ignorare la sentenza ed è partita la campagna per l'approvazione di una legge anti-burkini, la polemica non finirà qui. Ma all’estero, complice anche l’imminente fine della stagione balneare, questo spiacevole tormentone estivo molto probabilmente sarà presto dimenticato. Con le polemiche sul burkini, possiamo sperare di lasciarci alle spalle anche l’ennesima fiammata di femminismo per conto terzi e le stucchevoli discussioni sulla libertà delle donne musulmane.
In questa circostanza, paradossalmente, sono stati proprio i sindaci autori delle ordinanze e la sentenza con cui il tribunale amministrativo di Nizza ha inizialmente convalidato tali misure a chiarire in modo lucido e onesto il vero punto della questione. Lo scopo dell’ordinanza non era affatto proteggere la libertà delle donne, ma rispondere a un’affermazione identitaria che veniva percepita come una provocazione inaccettabile e un gesto di sfida alle istituzioni. La libertà delle donne, in questo contesto, compare per così dire fra virgolette, cioè come segnaposto per qualcosa d'altro. Il burkini segnala un’appartenenza religiosa e culturale che ha, fra le sue connotazioni più odiose agli occhi occidentali, la richiesta di un abbigliamento «modesto» e la sua presenza sulle spiagge francesi è stata percepita - giustamente - come il risultato di un atto deliberato, cioè libero, di affermazione di quell’appartenenza attraverso uno dei suoi simboli più controversi, e in quanto tale dotato di una spiccata valenza politica. Un atto libero anche perché gratuito in modo quasi strafottente, dato il contesto: uno statement politico, la rivendicazione della propria appartenenza, ma in stile balneare.
Le ordinanze dei sindaci anti-burkini - e la sentenza di Nizza - sono atti espliciti di rappresaglia contro questa affermazione identitaria, che fotografano - e allo stesso tempo alimentano - un forte clima di odio sociale. Sono risposte che si appellano all'ordine pubblico, in un momento di tensione e paura a seguito dei recenti attentati, agitando odiosamente il pericolo della reazione sociale violenta. Ciò che sostengono è che l’esibizione del burkini rischia di «essere percepita come una sfida o una provocazione che esacerba le tensioni sociali» e per questo può essere di grave turbamento all’ordine pubblico, in un momento in cui le forze di polizia sono impegnate altrove e non possono garantire la sicurezza sulle spiagge. Il sindaco di un comune còrso, per rendere più esplicito il messaggio, ha dichiarato che in assenza delle ordinanze si sarebbe «rischiato di avere dei morti».
Che la questione fondamentale sia questa, anziché i grandi principi democratici o la libertà delle donne coinvolte, si capisce anche guardando ai precedenti e al contesto più ampio in cui si iscrivono queste ordinanze. A fronte di una popolazione di quasi cinque milioni di musulmani, gli spazi di esistenza e di visibilità per chi è praticante sono sempre più ridotti. Da qualche anno, ad esempio, riemerge periodicamente l’affaire du porc, ogni volta che qualche scuola pubblica, spesso con l'incoraggiamento di politici eminenti, decide di venire meno alla pratica un tempo consolidata di fornire un pasto sostitutivo ai bambini musulmani quando in mensa viene servita carne di maiale. Un’ampia indagine di qualche anno fa sulla presenza dei musulmani nelle aziende francesi ha messo in evidenza che la maggior parte dei datori di lavoro trova inconcepibile che i propri dipendenti preghino o manifestino in qualsiasi altro modo la loro religione, anche se durante le pause e in modi che non interferiscono con le loro mansioni. Ma in realtà il problema di cui soffrono i musulmani non è solo la mancanza di visibilità e di spazi di esistenza, ma un’attiva segregazione in ogni contesto sociale. Alcuni studi pubblicati agli inizi di quest’anno, sulla scorta di una mole notevole di dati sperimentali, dimostrano che i musulmani, specie se maschi, subiscono in Francia una discriminazione grave e sistematica, e su base strettamente religiosa, nella ricerca di impiego e nella valutazione della professionalità. Queste forme di segregazione attiva si traducono, come succede in altri casi di discriminazione su base razziale e religiosa, in forme di auto-emarginazione e in un irrigidimento delle caratteristiche culturali e comportamentali che alimentano la diffidenza sociale, creando un circolo vizioso che porta a una sempre maggiore difficoltà di relazione.
La sentenza del Consiglio di Stato francese, in punta di diritto, ristabilisce i principi fondamentali dell’inviolabilità della persona e della libertà di movimento che le ordinanze anti-burkini calpestavano vistosamente. Ma al di là delle sacrosante dichiarazioni di principio la Francia rimane con il problema politico di un’insofferenza sociale sempre più grave e sempre più conclamata, che si concretizza, più che nelle leggi, nei comportamenti quotidiani, negli spazi di discrezionalità lasciati alle autorità amministrative e nelle regole di convivenza sui luoghi di lavoro, di studio e di ricreazione.
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