Provaci ancora Viktor. Le elezioni politiche ungheresi del 6 aprile consegnano un quadro apparentemente chiaro. A fronte di un’affluenza in calo rispetto alle ultime consultazioni, ma comunque superiore al 60%, il partito di governo Fidesz, guidato dal premier Viktor Orbán, ha ottenuto quasi il 45% dei voti, staccando l’opposizione di sinistra di circa 20 punti. Il nuovo sistema elettorale, misto a turno unico con sbarramento del 5%, ha premiato nettamente il partito più votato. Stando ai risultati preliminari, Fidesz si è aggiudicata 133 seggi su 199, ovvero l’agognata maggioranza qualificata che consente di governare senza bisogno di alcun appoggio esterno o compromesso con i partiti dell’opposizione.

Orbán centra dunque agevolmente l’obiettivo del secondo mandato, anche se va osservato un certo calo di consenso nel voto popolare: otto punti percentuali in meno e quasi 600 mila voti. Stando alle prime analisi, il partito di Orbán ha scontato quattro anni di governo all’insegna del conflitto politico, sociale e istituzionale dentro e fuori l’Ungheria, insieme a uno stile muscolare che ha compattato la base ma alienato al governo le simpatie della classe media intellettuale e dei ceti popolari colpiti da una politica di rigore fiscale che, contrariamente a quanto sostenuto dalla comunicazione ufficiale, non ha affatto risparmiato le famiglie. Ciononostante, Fidesz ha ottenuto un successo schiacciante nei singoli collegi, 96 su 106, grazie alla polarizzazione del quadro politico e alla presenza di due grandi partiti di opposizione incompatibili come i socialisti e l’estrema destra di Jobbik.

La sinistra é riuscita a prevalere di misura solo in 8 collegi su 18 della capitale e in due circoscrizjoni a lei tradizionalmente favorevoli, Szeged e Miskolc. Il pessimo risultato ottenuto nell’uninominale ha allargato la forbice, già ampia, fra il primo e il secondo raggruppamento e la coalizione di sinistra guidata dal partito socialista di Attila Mesterházy raccoglie appena 38 seggi, un risultato decisamente al di sotto delle aspettative. All’interno dello schieramento sconfitto è già partita una resa dei conti i cui primi sentori si erano avvertiti durante una campagna elettorale goffa e inerte. Il giovane e debole Mesterházy verrà probabilmente sacrificato per l’unica personalità in grado di unificare il variegato mondo della sinistra liberale: l’ex primo ministro Ferenc Gyurcsány, un politico controverso, amato da una minoranza dell’elettorato ma inviso ai due terzi della popolazione.

Più complicato valutare il risultato della destra radicale di Jobbik. Pur avendo sfondato la soglia del 20% a livello nazionale, con un risultato omogeneo in tutto il Paese tranne che a Budapest, dove ha comunque superato il 10%, il partito di Gábor Vona ha fallito per ammissione del suo leader tutti e tre gli obiettivi della campagna elettorale, e cioè diventare il primo partito in diverse province; superare la sinistra a livello nazionale; riuscire a conquistare uno o più mandati diretti. Può stupire la mestizia con cui il giovane leader dell’estrema destra ungherese ha commentato a caldo i risultati del suo partito, apparentemente ottimi  al netto di una campagna elettorale dominata dal partito di governo soprattutto nei media. Vona non aveva tuttavia nascosto di puntare molto più in alto rispetto del risultato di quattro anni fa (17%); da questo punto di vista, i 23 deputati raccolti da Jobbik rappresentano una magra consolazione, nonostante l’ulteriore avanzata dell’ultradestra ungherese abbia suscitato commenti preoccupati sulla stampa internazionale.

L’Ungheria di oggi è un Paese spaccato e non è ancora chiaro se Orbán abbia intenzione di sfruttare il miglioramento del quadro economico e sociale per "normalizzare" il suo rapporto con l’opposizione e le istituzioni europee. Jobbik cercherà un’occasione per rifarsi alle elezioni europee del 25 maggio e alle amministrative di autunno, mentre la sinistra deve trovare un leader e un messaggio politico convicente (per esempio l’abbandono dello sterile neoliberismo che contraddistingue la sua politica economica) se vuole tentare di sedurre i tanti delusi dall’esperienza Orbán. Il piccolo successo del partito ecologista Lmp, che ha superato la soglia del 5% nonostante l’assenza di copertura mediatica, sembra dimostrare, come afferma il suo motto, che "un’altra politica è possibile".